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L’errore di chi non sa ammettere i propri errori

L’errore di chi non sa ammettere i propri errori

L'errore di chi non sa ammettere i propri errori

Ho lavorato in un’azienda in cui le persone segnalavano i propri errori – si autodenunciavano – anche quando nessuno li aveva notati.
Ne parlavo l’altro giorno a pranzo, con dei colleghi che, prima di arrivare al caffè, avevano ormai gli occhi più grandi della faccia.

“Dove lavoravo io, non sarebbe mai stato possibile”, ha detto uno, manifestamente basito.
“Non so, non è rischioso per l’immagine?”, gli ha fatto eco l’altra.

Non lo so neanch’io, onestamente: è rischioso?
Gli studi sembrano andare nella direzione opposta: riconoscere un errore permette di identificarlo meglio e quindi di correggerlo.

“Un errore è un errore se non è stato corretto”

Lo diceva già Confucio, che non è nato ieri.
Poi nel caso specifico di cui parlavo, intendiamoci: a volte si trattava di cose banali, del genere Francesca ha aperto il pacco A mentre aveva bisogno del pacco B. Soluzione: i due pacchi hanno colori troppo simili e quindi vanno distinti, o messi in luoghi separati.

Oppure Gianluca ha preso in prestito un apparecchio per fare le etichette e non lo ha reso in tempo, perché il magazzino era già chiuso, così il giorno dopo chi ne aveva bisogno non l’ha trovato. Soluzione a seguito della segnalazione: in questi casi, lasciare l’apparecchio al ricevimento, che ha orari di apertura più estesi ed è accessibile a tutti.

Cose così.

Poi c’erano gli errori o i quasi errori (quelli in cui ti eri fermato in tempo) più gravi, che potevano avere un effetto concreto sulla sicurezza o dei collaboratori o dei clienti.
Di tutti questi, grandi o piccoli che fossero, si discuteva in modo istituzionale: avevamo gruppi coordinati dal servizio qualità a ogni livello di responsabilità, sia gerarchica che professionale. E la maggior parte delle decisioni venivano protocollate in un documento pubblico, accessibile a tutti sotto forma di newsletter.

Avevo visto un approccio simile in un’altra azienda, con un forte focus sulla sicurezza sul lavoro: ogni mese venivano pubblicate delle informazioni dettagliate su come si era prodotto l’infortunio, quale parte del corpo era stata colpita, e su come si poteva evitare che succedesse ancora. E venivano segnalati anche i “near miss”, quindi i “quasi errori”, sullo stesso principio di trasparenza (quindi, a ben pensarci, ho lavorato in ben DUE aziende che avevano una cultura positiva dell’errore).

La cultura dell’errore positiva

In letteratura, quando si parla di cultura dell’errore, la si associa spesso al contrario di quello che dovrebbe essere: ovvero un ambiente di lavoro che favorisce l’omertà e punisce severamente chi commette degli sbagli.

La cultura dell’errore positiva, invece, permette alle persone di sentirsi libere di riconoscere i propri errori, perché questi vengono inseriti in un processo di miglioramento continuo e non di gogna sociale, dove la persona si ritroverebbe marchiata a fuoco e a vita con la E di Errore sulla fronte.

Sbagliare e imparare è un aspetto fondamentale di ogni processo cognitivo, e non è esclusivo dell’essere umano: anche gli animali sono in grado di imparare dai propri errori e le ricerche scientifiche indicano che possono imparare anche nell’osservare i propri simili commetterne.

Oltre a questo, noi essere umani abbiamo anche la capacità di elaborare e di ponderare quanto appreso.

Da questo punto di vista, gli errori sono quindi una opportunità per affermare la nostra vera natura e mostrare ai colleghi come ci comportiamo quando sbagliamo. Si tratta di mostrare chi siamo in un momento di crisi. Per questo non dobbiamo essere ossessionati dalla paura di sbagliare.

Quando commetteremo un errore (notate il “quando” e non il “se”, perché prima o poi capita a tutti) cerchiamo quindi di non coprirlo con scuse o comportamenti difensivi o evitando di parlarne o ancora peggio dando la colpa ad altri.
Mostriamo invece a colleghi e superiori (e anche ai clienti, a volte) che sappiamo prendere le nostre responsabilità: questo darà di noi un senso di maggiore affidabilità, perché dimostreremo che, nel momento del bisogno, sappiamo fare la cosa giusta.

Imparare dagli errori

Ho studiato management a Singapore, dove mi avevano inculcato l’idea-stereotipo che una delle caratteristiche principali della cultura pan-asiatica è aver paura di “perdere la faccia”. Poi, venendo a vivere in Italia, ho scoperto che questo è un tratto condiviso dagli amici cinesi e dai professionisti italiani.

Piuttosto che riconoscere di aver sbagliato, si fanno tagliare una mano.
Ma non per malizia o per arroganza, proprio per abitudine (o per paura delle rappresaglie, che è peggio).
A mio avviso questo succede perché non hanno/abbiamo i modelli giusti.
Mancano i leader che sappiano ispirare la cultura dell’errore positiva, ammettendo di aver sbagliato.

Senza entrare nelle dinamiche da tifosi, siamo comunque il Paese in cui da una parte dello schieramento politico è tutta colpa del PD e dall’altra parte, invece, ci sono personaggi che, nonostante tutte la randellate democratiche prese, continuano a pensare di poter tornare sul davanti della scena, prima o poi.

Se non è difficoltà ad ammettere gli errori questa, ditemi voi.
Ed è un peccato, perché in realtà essere aperti all’errore, ai propri errori, agli errori del proprio team, è da sempre un’attitudine che cementa la fiducia.

Quando un leader è in grado di dire “Ragazzi, ho toppato”, manda un messaggio positivo, che autorizza anche gli altri a mostrarsi maggiormente vulnerabili.
Se l’Amministratore Delegato, se il Presidente del Consiglio, se l’imprenditore di successo sono in grado di riconoscere la propria vulnerabile fallibilità, perché non dovrei poterlo fare anch’io?

Una questione di fiducia

Onestamente, perché il fatto che il nostro capo o un leader politico dovesse ammettere di aver sbagliato dovrebbe destabilizzarci?
È un po’ come pensare che la Regina Elisabetta non vada in bagno anche lei. Mmm. Cattivo esempio, prendiamo qualcuno che non sia immortale: Belen Rodriguez, per esempio. La fa come tutti.

Nello stesso modo, sappiamo che tutti commettono errori eppure abbiamo tendenza ad aspettarci dai nostri superiori che non ne facciano.
In nome di cosa? Forse di quella famosa “immagine” di cui parlavamo all’inizio, perché dire di aver sbagliato è rischioso per il proprio personal brand?

Ma è veramente così?
Gli studi in questo campo hanno dimostrato che

L’autenticità
è uno degli elementi fondamentali della fiducia: cosa di più autentico, se non il fatto di affermare l’ovvio, ovvero che anch’io commetto errori? Lo sapevate già, non vi sto dando nessuna breaking news.

Le altre due caratteristiche sono:

L’integrità
Il leader che ammette di essersi sbagliato – soprattutto in situazioni di peso – la dice lunga sulla sua integrità, prima ancora che sul suo bisogno di avere ragione. Le persone apprezzano chi sa fare un passo in avanti e prendersi le proprie responsabilità, perché il segnale che manda è quello di essere in grado di fare la cosa giusta anche quando è la cosa più difficile da fare.

e

La capacità di far sentire le persone al sicuro

In quanto leader, sta a te dare l’esempio e a definire le modalità in cui gli errori verranno trattati nella tua azienda.
Le persone vedranno che non ti fai problemi ad assumere i tuoi errori, e quindi si sentiranno al sicuro nel fare lo stesso. Insieme, potete creare un ambiente di lavoro dove gli errori sono evidenziati e sfruttati per migliorare.
Un leader che dimostra di essere interessato alla crescita personale di ciascuno di noi rinforzerà il senso di fiducia dei collaboratori nella sua leadership.

Quando riconoscere un errore è problematico?

Ci sono invece situazioni in cui ammettere di aver sbagliato non è di grande utilità.
In questo caso, il mio suggerimento è di riconoscere l’errore, ma di non aspettarsi un effetto positivo in termini di fiducia e neanche integrità.

Penso in particolare a quelle casistiche in cui una persona continua a fare sbagli, uno dietro all’altro o, ancora peggio, ripete sempre lo stesso errore: a questo punto, o è incapace o è incosciente. Ammettere i propri errori funzionerà all’inizio, ma col passare del tempo verrà vissuto come un tentativo di manipolare l’altro tramite una falsa trasparenza che dovrebbe garantire l’immunità ad oltranza.

Un altro caso è quando l’errore è stato fatto a causa di un comportamento esageratamente testardo o egoistico: tutti ti avvertono che potresti sbagliare, e in fondo sai che hanno ragione, ma ci vuoi provare lo stesso, e pam. L’effetto formativo, in questi casi, è giustificabile solo se si è adolescenti ribelli.

Una terza casistica è quella della reazione fuori luogo: un errore commesso in un momento di collera, ad esempio. Tipo buttare il computer dalla finestra perché non riesci a far funzionare quella transizione su PowerPoint che tanto ti piaceva. Dubito che la soluzione, in questi casi, sia incollare il computer al tavolo: è probabile che sia più funzionale prendere provvedimenti nei confronti della persona.

E infine, la giustificazione d’errore più codarda (ma purtroppo piuttosto comune): “Non è colpa mia”, che si declina in vari modi, genere “È stato Giovanni a dirmi di fare così”, “Maria non mi ha dato le informazioni a tempo” o “Queste cose succedono perché la Direzione continua a tagliare il personale”. Ammettere l’errore con colpa degli altri a corollario è raramente utile e comunque mai benefico.

Migliorare le prestazioni

Degli studi recenti condotti dal medico e sociologo Nicholas Christakis hanno dimostrato che i gruppi in cui si ammettono gli errori hanno tendenza a collaborare meglio. E che questo ha un effetto diretto sulla produttività.

L’aspetto interessante dell’esperimento del professor Christakis è di essere stato condotto su gruppi misti uomini/macchine, dove le macchine avevano questo ruolo di mostrarsi fallibili (o no, a dipendenza del gruppo test).

Nei gruppi in cui i computer (che poi erano robot umanoidi)  si dimostravano sufficienti di fronti all’errore, e non ne prendevano la responsabilità, si sono creati dei meccanismi disfunzionali che hanno portato il team a comportamenti poco collaborativi.

Nell’altro gruppo test, invece, proprio perché il preconcetto era che i computer non commettano errori di calcolo o di elaborazione, sentirne uno riconoscere di essersi sbagliato nel risolvere un problema matematico, in modo candidato e genuino, ha creato delle interazioni di gruppo molto simili a quelle tra superiore e collaboratori, in un ambiente di lavoro caratterizzato dalla cultura dell’errore positiva.
In altre parole, in questo team si è creato uno spazio in cui le persone si sentivano maggiormente sicure nel condividere le proprie insicurezze.

E questo ha pagato, anche a livello di produttività.

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