
Si occupa di formazione e consulenza per (provare a) risolvere…
Uno dei problemi più fastidiosi che ci zavorrano nella comunicazione tra noi – tra colleghi, tra le mura di casa o tra amici – sono le incomprensioni.
Quando parliamo, quando scriviamo, ci sono fondamentalmente due rischi. Il primo, è quando diciamo qualcosa di troppo. Può scivolare un parola in più, una frase fuori luogo, un commento che casca fuori dal vaso.
Il secondo rischio è l’esatto opposto. A volte, specie quando c’è intesa con chi abbiamo di fronte, tralasciamo cose che diamo per scontato. Questo a me capita spesso, nonostante sia uno che non centellina le parole.
È meglio o peggio?
Difficile dirlo; ma il secondo caso porta a maggiori incomprensioni ed è anche il più subdolo. Se sproloqui, te ne rendi conto da solo, o in altri casi potrebbero fartelo notare. Ma se perdi pezzi, se non li comunichi, è meno probabile che tu te ne accorga ma, paradossalmente, potresti fare più danni: le incomprensioni nascono così, magicamente.
Quando facciamo delle omissioni, però, di tutte le cose che possiamo perderci per strada ce n’è una più rilevante delle altre, ma ci ho messo un poco a capirlo. Mi ci è voluto il mare e la montagna: se avete qualche minuto, vi ci porto con me.
Meno dici, meglio è: come pararsi il c(uore)
L’anno scorso stavo spiaggiato al mare e a un certo punto mi è venuta in mente l’Ikea.
In realtà è successo mentre andavamo a pranzo alla fine di un week end marittimo in famiglia. Avevo appena spostato l’auto ed ero approdato alla colonnina per i tagliandi del parcheggio pronto ad inserire denari.
L’aggeggio non accettava i pagamenti elettronici e la motivazione era indicata con il tipico lessico da Conte Mascetti in Amici Miei (che peraltro non ho mai guardato perché non guardo film in bianco e nero, pur non andandone fiero, e che quindi cito per pura convenienza stilistica):
“Il presente dispositivo non accetta pagamenti elettronici per impossibilità tecnica, in base al comma 901 della l. Dal 1º luglio 2016 le disposizioni di cui al comma 4 dell’articolo 15 del decreto-legge 18 ottobre 2012, n. 179, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 dicembre 2012, n. 221, si applicano anche ai dispositivi di cui alla lettera f) del comma 1 dell’articolo 7 del codice della strada, di cui al decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285”
Chiaro, no?
No. Altro che incomprensione. E infatti l’omissione qui era volontaria, serviva a pararsi le natiche e si presentava sotto forma di barriera tecnica: sono costretto a scrivertelo e lo faccio nel modo meno intuitivo che c’è, con il minimo indispensabile (cioè la previsione di legge). La gabola l’ho scoperta solo dopo. Essendo obbligatorio accettare pagamenti elettronici anche per i gestori dei pedaggi da strisce blu, nei comuni dove non era stata aggiornata la macchinetta per i pagamenti con carta, le persone semplicemente evitavano di pagare la sosta. In caso di multa, avrebbero fatto ricorso et voilà.
E cosi, italianamente, su ogni colonnina si indicava la formula magica, che tradotta era “Si, siamo obbligati ad accettare la tua carta, salvo i casi nei quali sia tecnicamente impossibile abilitare la macchinetta a farlo. E questo è Il Caso.” Fine.
Un capolavoro.
Meno supercazzole aiutano
E insomma quel giorno mi è venuta in mente Ikea, perché in una delle sparute volte che l’ho bazzicata, mi ci ero anche fermato a pranzo e la cosa che mi aveva colpito era questo cartello con un messaggio dallo stile diametralmente opposto a quello visto al mare:

Ikea non ti scrive “Si ricorda i gentili clienti che DEVONO sparecchiare” ne tantomeno “Si rammentano le disposizioni dell’articolo 3 del regolamento”.
Ti scrive una cosa semplice: se sparecchi, fai un favore a me e indirettamente ne fai uno anche a te.
Senza nemmeno un grazie, per inciso, ma mi è piaciuto lo stesso. Ho sparecchiato, contento di farlo, quasi mi sentissi in squadra con gli altri dipendenti in camicia gialla.
Mi ha davvero stupito dell’effetto, anche se non ho messo a fuoco fino in fondo il motivo esatto, ad essere onesti.
Una mano è meglio di un dito alzato
Poi quest’estate, a distanza di pochi giorni ho incrociato due cartelli di tenore decisamente diverso, entrambi in bagni di locali sudtirolesi:

Leggendoli bene, c’è una differenza sostanziale tra questi due cartelli:
- Quello di sinistra ti accoglie con un paternale dito (indice) alzato: “Bagno solo per clienti!!!1! Se sei tra gli scrocconi sappi che mi devi 1€”
- Quello di destra ti offre la mano come si faceva nell’epoca pre-coronavirus: “Comprendo che sei in mezzo al nulla, e ti scappa, ma anche io devo arrivare a fine mese: entra pure, ma ti prego di dare il tuo contributo”
Non ci sono incomprensioni sul significato del messaggio (che è chiaro: se non sei cliente, paghi l’accesso), ma sul tono e l’intento probabilmente si.
Ed è proprio li, nel bagno di una malga in Valle Aurina, che mi sono reso conto di cosa mi colpisce del cartello Ikea, o di questo qui sopra a destra: non si limitano ad indicarti il cosa, ma anche il perché.
(Detto tra noi anche il cartello di destra, seppur più gentile, risulta vagamente direttivo (!!!!), ma vi ricordo che ero pur sempre in Alto Adige…)
Il perché delle cose è importante
E qui torniamo al punto di partenza: per evitare le incomprensioni nella comunicazione si possono fare molte cose, ma se dovessi sceglierne una soltanto mi concentrerei sul non tralasciare i perché.
Il perché delle azioni è fondamentale, non è secondario rispetto al cosa. Aiuta a dare un senso allo sforzo, informa sulle conseguenze di un mancato comportamento, rende di fatto più consapevoli.
Inoltre, se il perché è ragionevole, facilita la digestione di cose scomode. Supporta nella costruzione di un meccanismo di fiducia e di reciproco rispetto con l’interlocutore: ti tratto da adulto, ti spiego la ragione della mia richiesta, capisco che ti sto chiedendo un sacrificio ma in trasparenza ti spiego cosa mi ha spinto a farlo.
Sono sicuro possa sembrare anche banale, ma se riflettiamo sulla comunicazione quotidiana che sperimentiamo nella nostra vita privata o professionale, credo sia tutt’altro che spontanea, come attitudine.
- Pensate alle email che annunciano l’inizio di un training
- Ripescate le comunicazioni sul performance appraisal
- Date un occhio alle bacheche del personale in produzione
- Leggete i cartelli che trovate in palestra
- Fate attenzione alle indicazioni che trovate negli uffici pubblici (e anche i privati non scherzano)
- Pensate ai perché non detti tra partner (quelli belli si chiamano intesa, quelli critici si chiamano scazzi e possono portare al divorzio).
Probabilmente il motivo è che spesso diamo per scontato il perché al punto da non doverlo esplicitare: è evidente a tutti la ragione per la quale il bagno di un locale è preferibilmente riservato ai clienti, in effetti, così come è intuitivo il perché sia utile sparecchiare in un self-service.
Ma pensando alla vita, al lavoro, a me capita spesso di averla chiara nella mia testa questa evidenza. Non esplicitandola, non favorisco la comunicazione: può essere che il messaggio venga recepito nel modo giusto. Ma può essere anche il contrario. E devo dire che correggere una sbagliata interpretazione dei messaggi è molto più faticoso e complicato che aggiungerci due paroline sul perché.
Cosa ne pensi?

Si occupa di formazione e consulenza per (provare a) risolvere problemi. Marito, papà e compagno di viaggio. Mi sono occupato di Risorse Umane e non ho ancora smesso: ho solo cambiato lato della scrivania. La versione più lunga (e noiosa) la trovate su LinkedIn. Nel tempo libero (e di notte) sto su Netflix, scrivo qui e tengo una micro newsletter settimanale su temi HR (interessanti, tecnici e anche un po’ nerd). Cerco di tenere la testa fuori dall’acqua e mi appassionano le persone, specie se argomentano.