All’età di tre anni ho deciso di diventare vegetariano; in…
Come fare a tenere accesa la fiducia nell’altro?
L’altro – l’essere umano: quello che nei film di fantascienza, quando gli alieni ci invadono, sentiamo vicino come un fratello. L’altro, quello che, insieme a tanti altri come lui, crea l’umanità che lotta per la sua sopravvivenza e per la quale tifiamo tutti. O quasi.
Perché io, ad esempio, la razza umana, a volte, non la amo particolarmente.
Mi riesce difficile esserne un fan, quando guardo con quale arroganza crediamo di essere in cima alla piramide alimentare e di avere diritto di vita e di morte sugli altri esseri viventi; o guardo cosa abbiamo fatto al nostro pianeta, alla mancanza di rispetto che abbiamo per la nostra casa, l’unica che abbiamo, oppure ancora guardo l’innocente ignoranza con cui abbiamo cominciato a inquinare anche lo spazio, riempendolo di satelliti, di detriti, di rifiuti, e persino di auto elettriche di ultima generazione.
E, soprattutto, guardo cosa ci siamo fatti per millenni. Cosa abbiamo fatto agli altri, voglio dire.
Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te
La nostra specie è unica sotto molti aspetti e tra questi c’è anche quello di aver inventato metodi di tortura e di sofferenza che si distinguono per creatività e crudeltà.
Lo abbiamo fatto dalla notte dei tempi, in ogni cultura, in ogni angolo del mondo, in ogni epoca.
La tirarono giù dal carro e le strapparono i vestiti. La trascinarono per strada, fino alla chiesa, tirandola per i capelli. Lì la immobilizzarono e ognuno si servì dal cumulo dei resti di costruzione: chi prese una tegola, chi una scheggia di pietra, chi un coccio di vetro, chi una conchiglia rotta, e le raschiarono la pelle via dal corpo, lembo dopo lembo. Quando fu totalmente scorticata, le staccarono gli arti, la fecero a pezzi più piccoli per poi bruciarli, affinché di lei non restasse nulla.
Così morì Ipazia, filosofa e matematica, nel marzo del 415
La vittima veniva immobilizzata e fatta sedere su un palo che, dopo essere stato ricoperto di pece, miele, e qualsiasi altro materiale che lo rendesse viscoso, veniva poi sollevato in posizione verticale. A causa del peso, la punta del palo si conficcava nella carne viva e il legno si faceva piano piano strada attraverso le interiora del condannato, strappando tessuti, lacerando gli intestini, rompendo le ossa del bacino che trovava sul suo cammino. Di solito il palo emergeva a livello dello sterno e veniva quindi posizionato sotto il mento, per bloccarlo. La vittima poteva sopravvivere fino a 3 giorni in quella posizione, impalata, prima di esalare l’ultimo respiro.
Così morirono fino a 300’000 persone, nel 1400.
Hanno usato il suo corpo come una lavagna, incidendo con un coltello delle lettere nella sua carne, in cinque punti diversi, tra cui la mano sinistra, sulla schiena e sul volto, tra l’occhio e il sopracciglio destro. Per diversi giorni, l’hanno picchiato, seviziato, ustionato sia con sigarette che con fili elettrici, martoriandolo su tutto il corpo nudo, rompendogli i denti, fratturandogli tutte le dita delle mani e dei piedi, mentre con una spranga gli avevano letteralmente spappolato i peroni delle gambe. Il colpo che lo uccise lo colpì al collo, rompendogli una vertebra cervicale.
Così morì Giulio Regeni, giovane ricercatore italiano, nel febbraio del 2016.
Dà la nausea, vero?
Ma non nascondiamoci dietro alla scusa che ci sono i buoni e ci sono i cattivi, che ci sono gli invasati, i terroristi, gli assassini, i dittatori crudeli.
Siamo noi, esseri umani, a far all’altro tutto questo. Senza mai pensare che l’altro potremmo essere noi. O forse è proprio questo il nostro modo di esorcizzare la paura di essere alla mercé di qualcuno? Colpiamo nei modi più infimi perché ci aspettiamo che l’altro ci colpirebbe nella stessa maniera?
Non per niente, molti di noi credono in una religione che ha fatto di uno strumento di tortura e di morte il proprio simbolo (la croce…).
Molti di noi, noi tutti, persone senza grandi titoli o responsabilità. Persone comuni.
Le stesse persone che hanno fatto di uno strumento di tortura e di morte il proprio simbolo di speranza: la croce.
Perché la violenza straordinaria è perpetrata spesso da gente ordinaria.
Elementi di ordinaria violenza
Ci sono numerosi fattori che determinano i nostri comportamenti e, di conseguenza, se una persona svilupperà tendenze violente. Ci sono aspetti genetici, relazioni familiari, il livello di studi, l’intelligenza, lo sviluppo più o meno equilibrato in età infantile, la relazione con i propri pari, degli aspetti culturali e, naturalmente, delle caratteristiche individuali.
Ogni fattore ha un effetto sugli altri e gli altri su di esso. Quando i fattori negativi si accumulano e in assenza di fattori positivi, la violenza sembra diventare l’unico modo che abbiamo per gestire i problemi della vita.
Lo sviluppo dei social ci ha fornito una finestra privilegiata su questo fenomeno: ci permette di vedere tutto l’odio, la cattiveria, la bassezza di cui siamo capaci. Lo siamo sempre stati. Come razza, abbiamo ucciso e torturato da millenni e non abbiamo mai smesso.
E non è qualche maniaco. Siamo tutti noi.
Mio padre mi raccontava la settimana scorsa di suo fratello maggiore che, durante il periodo del fascismo, usciva con lo squadrone di amici a fare le purghe.
Prendevano le persone che avevano già adocchiato in precedenza e le isolavano, magari sulla strada pubblica, all’uscita dal lavoro, o addirittura nella propria casa. Davano loro una lezione e li forzavano a ingoiare dell’olio di ricino, a litri. Alcuni, i più deboli, morivano letteralmente di diarrea. Le purghe, appunto.
Il vuoto che fa parte di noi
Quello era mio zio Ilario, quello che mi piaceva anche senza averlo mai conosciuto, perché mio padre mi diceva che era alto come me, e mi assomigliava.
E non è stata l’unica sorpresa della settimana.
Poi è successo che su LinkedIn qualcuno ci accusasse di lucrare sul dorso dei disoccupati.
La mia prima reazione è stata quella di essere allibito, ancora prima che ferito. Perché ha scritto questa cosa, in un post pubblico? È probabile che lo pensi veramente, che si senta veramente così, usato, anche se non è mai stato un nostro cliente…
Lo trovo ingiusto? Sì. Lo capisco? Non so. Ma mi sforzo.
Mi sforzo di capirlo e questo non mi rende migliore, anzi: mi rende falsamente superiore, mi rende uno di quelli che cerca di sfuggire alla natura bassa di cui siamo fatti. È più probabile che dentro di me, questa persona avrei voglia di picchiarla e gridarle che non è vero non è vero non è vero e sta mentendo. Invece incasso. E con il mio modo di non agire, sono di una violenza inaudita. Perché a volte non c’è nulla di peggio dell’essere semplicemente ignorati.
Intendiamoci: è anche un meccanismo di difesa. Personalmente, io sopravvivo al disgusto… ignorandolo.
Ignoro chi usa ancora frasi ad effetto del genere “vi svelo il segreto del curriculum vincente”, come se fosse una bella cosa e che invece sembra il bandana che si portava nell’estate dell’85.
Ignoro chi posta i gattini, le canzoni, le foto dei tramonti, perché mi dico che forse ne ha bisogno, e chi sono io per giudicare?
E ignoro certe persone che sottoscrivono appelli e manifesti per smettere di utilizzare parole che feriscono sui social, eppure ogni volta che fanno un commento, hanno un pala di merda per ciascuno, e la distribuiscono in maniera generosa, tutti i giorni, con quel fare di chi pensa di essere superiore e senza peccato.
Io stesso, proprio ora, getto la prima pietra e avverto un piccolo brivido di sovversione che mi scuote perché mi sto esponendo. O forse non è sovversione: è ciò che si prova quando si comincia ad essere ignorati. Ignoro anche me stesso.
E non provo nulla. Nulla perché la violenza, anche quella verbale, non porta nulla.
Eppure la usiamo di continuo. Adoriamo esercitare il nostro nulla. Adoriamo essere nulla. Forse è rassicurante smettere di pensare a chi siamo, dove andiamo e perché. È più semplice chiuderci nel ciclo dell’ingiuria, della parola che ferisce, della battuta sagace, come se fosse una manciata di terra gettata nel pozzo di ciò che proviamo.
Perché quel buco esistenziale che sentiamo dentro di noi è veramente profondo. Non riusciamo a riempirlo con niente: il sesso, l’alcol, i soldi, neppure la felicità di vedere crescere i propri figli. Rimaniamo assetati e vuoti e allora è chiaro che diventiamo violenti. Siamo profondamente incazzati col mondo. E con noi stessi.
E ci credo che diventiamo violenti.
Le neuroscienze a soccorso
L’essere umano è frustrato, e chi imbriglia questa frustrazione fa successo.
E chi la cavalca, e la porta all’eccesso, può governare persino un Paese.
Le ricerche nel campo delle neuroscienze hanno dimostrato che uno spirito fortemente competitivo permette di migliorare le prestazioni individuali e, parallelamente, contribuisce a creare una percezione più elevata della propria posizione sociale.
In pratica, chi esercita pressione, potere, controllo e altre forme di violenza più o meno sdoganate ha più successo. E, nell’eterna comparazione che facciamo tra noi e i nostri simili, questo ci rende più sicuri di noi e del nostro ruolo nella gerarchia della vita.
Al contrario, gli studi che si sono dedicati a esplorare i comportamenti cooperativi hanno dimostrato che la modalità partecipativa rinforza il benessere sociale, ci fa sentire importanti e soddisfatti, e contribuisce a migliorare le relazioni tra le persone (questo non dovrebbe sorprendere).
D’altro canto, però, i comportamenti cooperativi sono associati a delle prestazioni inferiori rispetto a quelli competitivi. Insomma, sei felice ma meno produttivo. Per lo meno nell’ambito socio-culturale in cui viviamo oggi.
L’aspetto interessante di queste ricerche estremamente pratiche, nel senso che misurano l’attività delle differenti parti del cervello quando vengono attivate, è che ci si è resi conto che entra in gioco molto presto il concetto di ricompensa: la cooperazione soddisfa i nostri bisogni, mentre la competizione è meno interessante dal punto di vista sociale, e anzi richiede un impiego più elevato di risorse mentali.
Il principio di economia delle risorse classificherebbe quindi la competizione come anti-economica, e le darebbe di conseguenza meno spazio nell’ordine naturale delle cose. La maggior parte dei processi fisiologici, infatti, tende all’ottimizzazione dei processi: in natura non tutto ciò che consuma più del dovuto tende a modificarsi, o a sparire.
Una teoria discussa a questo livello, ritiene che in un contesto competitivo, i comportamenti del “rivale” siano meno predittivi rispetto a un contesto cooperativo. Infatti, nel caso di quest’ultimo, le aspettative condivise tendono a essere chiare, in termini di comportamenti, in quanto tutti perseguono lo stesso obiettivo. Nella competizione, invece, non sai cosa aspettarti e quindi devi essere molto più presente e attento.
La violenza: un fenomeno contro natura?
Nonostante le premesse estremamente sfavorevoli, mi sento in obbligo di prendere in considerazione questa ipotesi: e se la violenza non fosse la soluzione più semplice, quella più naturale? Se ci fosse stato qualcosa, a un certo punto della nostra evoluzione, che è andato storto?
Poco fa ricordavo che i fattori che determinano l’insorgere di comportamenti violenti sono molteplici, a livello di individuo. Tuttavia, non è forse vero che possiamo dire lo stesso a livello di società, tutta intera?
Quali sono i fattori che ci hanno fatto disertare la strada economica della collaborazione per preferire quella più difficile della competizione?
È stata l’agricoltura? Quando abbiamo cominciato ad avere abbastanza da mangiare, a non dipendere più solo dalla caccia e dalla raccolta stagionale, abbiamo forse soddisfatto i nostri bisogni di base e quindi abbiamo cominciato a volere di più? E in quel volere di più, d’un tratto, la collaborazione non era più abbastanza? Non saprei.
Certo, come dicevo poco fa, ci sono prove di violenza dell’essere umano contro un altro essere umano fin dalla notte dei tempi. Ma ci sono anche evidenze che i nostri avi più lontani si prendevano cura dei loro simili. La cura dei malati o dei feriti, ad esempio, non è una caratteristica esclusiva dell’uomo, tuttavia, nel regno animale, siamo l’unica specie a praticarla in maniera sistematica.
Gli antropologi hanno trovato delle prove di uccisioni di ominidi un po’ dappertutto nel globo e questo risalenti fino a 45’000 anni fa. Tuttavia, nei limiti delle nostre conoscenze attuali, i primi segni di quella che deve essere stata una battaglia risalgono a soltanto 13’000 anni fa. Il luogo è la valle del Nilo e i cadaveri ritrovati, morti di morte violenta, sono 60, tutti nello stesso posto.
I ritrovamenti che indicano invece dei comportamenti collaborativi nei nostri antenati risalgono addirittura a più di un milione di anni fa, quando l’homo sapiens non esisteva ancora. Sono state ritrovate delle ossa che mostravano segni di malattie, di deformità o semplicemente di gravi infortuni e di cui si è potuta accertare la sopravvivenza su un lungo periodo. Cosa significa? Che qualcuno si prendeva cura dell’uomo rimasto senza gambe, o della bambina idrocefala. Ricevevano cure, attenzioni, e cibo. Per anni.
Disinneschiamo la violenza
Gli esseri umani prestano soccorso in maniera istintiva. Lo si vede anche nei bambini più piccoli, che dimostrano già in tenera età il desiderio di confortare chi soffre. Ed è proprio questo meccanismo collaborativo che ci ha permesso di sopravvivere e di evolvere fino allo stadio attuale della nostra civiltà.
La spiegazione più semplice che mi viene in mente per giustificare un comportamento non naturale come la violenza è il fatto che viviamo in un ambiente non naturale. Il sistema della concorrenza tra le aziende è fondamentalmente poco in linea con la natura umana.
La competizione è la risposta che abbiamo trovato per rispondere a delle richieste ben precise: affermare i vantaggi competitivi, essere meglio degli altri, garantire i nostri margini di guadagno, vendere di più.
Con questo quadro concettuale in mente, ci sono tre cose che dobbiamo imparare a fare quando siamo al lavoro:
- accettare che ci siano persone che fanno le cose meglio di noi, in azienda e fuori, e non sentirci minacciati da questo; anzi: che ci siano di ispirazione per migliorare;
- salvaguardare del tempo di qualità da passare con gli altri, e ciò significa non fare orari impossibili (e non inventare scuse sul fatto che bisogna farli per forza);
- praticare sempre la gentilezza, in ogni occasione, anche quando siamo in difficoltà.
Il cambiamento comincia da piccoli gesti e non c’è bisogno di fare delle rivoluzioni. Ad esempio, si può uscire 15-20 minuti prima dal lavoro, con più regolarità. Cambiando le regole del gioco, arriveremo a intaccare anche i comportamenti disfunzionali e violenti. E con questo anche i capi stronzi, i colleghi antipatici, i familiari dominanti. Un piccolo passo per noi ma un grande passo (indietro) per l’umanità, ai tempi in cui eravamo consci che, per sopravvivere, dovevamo collaborare.
D’altro canto, come diceva quella canzone?
Il cambiamento incomincia dall’uomo che vedi nello specchio.
Cosa ne pensi?
All’età di tre anni ho deciso di diventare vegetariano; in seconda elementare, la maestra ha convocato i miei genitori perché “non era normale” che un bambino conoscesse tutti i nomi dei funghi in latino; a 13 anni ho amato per la prima volta senza sapere che non era amore; a 15 ho smesso di fare decathlon perché odiavo la competizione; ancora minorenne, sono stato processato da una corte marziale. A 20 anni mi sono sposato e a 23 ho divorziato; a 25 anni dirigevo una start-up che ho fatto fallire; a 29 ho avuto la meningite, sono morto ma non ho saputo restarlo. A 35 anni ho vissuto una relazione poliamorista e sono diventato padre di figli di altri. A 42 mi sono licenziato da un posto fisso, statale e ben pagato per fondare l’Agenzia per il Cambiamento Purple&People e la sua rivista Purpletude. A parte questo, ho 20 anni di esperienza nelle risorse umane, ho studiato a Ginevra, Singapore e Los Angeles, ho un master in comunicazione e uno in digital transformation e ho tenuto ruoli manageriali in varie aziende e in quattro lingue diverse: l’ONG svizzera, la multinazionale francese, le società americane quotate in borsa, la non-profit parastatale. Mi occupo soprattutto di comunicazione del cambiamento, di organizzazioni aziendali alternative e di gestione della diversità – e scrivo solo di cose che conosco, che ho implementato o che ho vissuto.