All’età di tre anni ho deciso di diventare vegetariano; in…
Venditori e agenti di commercio sono due delle professioni più ricercate nelle offerte di lavoro di LinkedIn. Vendere non è un mestiere per tutti. Io, ad esempio, sono un pessimo venditore. O meglio: sono un pessimo procacciatore di affari. Se il contatto è già stabilito, magari riesco anche a vendere. Ma andare a cercare clienti? Non è proprio la mia tazza di thè, come dicono gli anglosassoni.
Quindi: massima stima per chi vende per mestiere.
Ci vuole abilità, coraggio e, più spesso di quanto lecito, ci vuole anche pelo sullo stomaco.
Ma la mia empatia si ferma qui.
Siamo tutti bugiardi
Empiricamente, la maggior parte degli agenti di commercio e dei venditori che ho incontrato in vita mia, su una scala virtuale dell’etica si piazzano da qualche parte tra il furbacchione e il furfante.
Alcuni mentono per omissione: le auto con l’AdBlue inquinano molto meno (ma non ti dicono che, se fai molta autostrada, dovrai fare un pieno di AdBlue ogni due mesi).
Alcuni mentono per ignoranza: questo veicolo è di categoria energetica A (ma non è vero: vale solo per il modello manuale; quello automatico di cui stiamo parlando è una categoria C).
Alcuni mentono per interesse: sul Tiguan, se me lo prendi subito, ti faccio uno sconto del 10%, ma solo perché sei tu (in realtà il rivenditore gli permette di arrivare fino al 20% sui veicoli in stock).
Diversi studi hanno dimostrato che noi tutti, nella vita di tutti i giorni, facciamo affermazioni ingannevoli in più del 60% dei casi. In altre parole, neanche una cosa su due che diciamo è vera al 100%. Qualche politico potrà tirare un sospiro di sollievo.
Questo succede perché la menzogna – e la chiameremo così per semplificare – ha diverse forme e innumerevoli scopi.
Cos’è la menzogna
Secondo Luigi Anolli devono presentarsi tre condizioni affinché si possa parlare di menzogna:
- la falsità di ciò che viene espresso;
- la consapevolezza di questa falsità;
- l’intenzione di ingannare il destinatario.
Ci deve quindi essere intenzionalità di ingannare, anche se l’inganno non fa sempre rima con danno: Non piangere tesoro, il tuo cagnolino adesso sta giocando con gli angeli ed è felicissimo: devi essere contenta per lui.
La deontologia
Quindi, è inevitabile che nella vendita ci siano degli aspetti ingannevoli, visto che sono endemici alla nostra specie?
Proprio la nostra specie ha inventato il concetto di etica, per darsi delle risposte a interrogativi esistenziali di questo tipo.
Dall’etica nasce la deontologia, ovvero l’insieme delle regole che disciplinano l’esercizio di una determinata professione.
Questo significa che, a partire da un modello comportamentale di base e ideale, possiamo distinguere i discorsi e i comportamenti in buoni, leciti o giusti, a dipendenza del contesto.
Vendere o non vedere, questo è il dilemma
La stragrande maggioranza degli agenti di commercio ricevono delle provvigioni; anzi, sempre più spesso, vivono solo di quelle. Ciò significa che, per loro, effettuare una vendita rappresenta un bisogno fondamentale. Sopravvivenziale, direi.
Quanto siamo disposti a restare moralmente intransigenti, quando c’è in gioco la nostra stessa esistenza?
I presupposti non sono dei migliori. E non va avanti meglio.
Secondo i miei parametri (ognuno ha i suoi), vendere qualcosa a qualcuno, sapendo che non ne ha bisogno, non è etico.
Un venditore dovrebbe assumersi la responsabilità di verificare se il suo cliente possa trarre un reale beneficio dall’acquisto di quel bene o di quel servizio.
Poi potremmo discutere ore sulla dimensione di quel “trarre beneficio”, perché può andare dalla polizza assicurativa alla vodka (per restare soltanto nel quadro della legalità). Sono benefici diversi e, sicuramente, anche loro con una tassonomia etica. Ma sarebbe un altro discorso.
La bellezza del mercato è che ci sarà sempre qualcuno che può essere interessato a un prodotto inutile. Tuttavia, non si può pretendere che quel prodotto crei valore e ricchezza in maniera continua: c’è un limite naturale oltre il quale il consumatore, per essere con-vinto, deve subire una forma di manipolazione.
Il caso dei bastoncini per le orecchie
Sappiamo tutti cosa sono, anche se ognuno li chiama in modo diverso: Q-Tips, cotton fioc, bastoncino cotonato, bastoncino di ovatta.
Quello che non tutti sappiamo, invece, è che non vanno usati per le orecchie. E qui non parliamo dei consigli della nonna: c’è proprio scritto sulla confezione.
I bastoncini di cotone sono commercializzati per le loro diverse applicazioni: per sfumare i colori nei disegni, per togliersi il trucco, per pulire le fughe delle piastrelle… ma l’utilizzo principale che se ne fa è esattamente quello sconsigliato in modo esplicito dai produttori: “Non inserire nel canale uditivo”.
Un prodotto di questo tipo risponde a un bisogno del consumatore: serve alla sua igiene. Ma non è raccomandato. Un disclaimer sulla confezione basta? E se vendessimo (e vivessimo grazie ai) cotton fioc, inseriremmo il discorso che è sconsigliato, nei nostri argomenti di vendita?
L’etica del marketing e delle vendite
L’aspetto interessante dell’etica del marketing (e di conseguenza delle vendite – i “sales”) è che mette l’accento su aspetti operativi come la trasparenza su chi è pagato per pubblicizzare un prodotto (gli influencer dovrebbero sempre indicarlo nei loro post); o sul fatto che bisogna garantire la sicurezza dei dati dei clienti; o, ancora, sugli eventuali segmenti da evitare (niente pubblicità durante i cartoni animati).
Quando si toccano gli aspetti etici, ci si rimette invece alla deontologia personale del professionista del marketing o degli agenti di commercio. E già, per definizione, la deontologia non potrebbe essere personale.
Qualche anno fa avevo un collega che tradiva la fidanzata. E giudicava malissimo chi metteva le corna. Un giorno gliel’ho fatto notare e lui, molto stizzito, mi ha risposto: Cosa c’entra? La mia situazione era diversa e comunque lo sai solo tu.
Ecco cosa succede quando ci si affida all’etica (o alla deontologia) personale.
Come riconoscere l’agente di commercio non etico
Come professionista delle risorse umane, ci sono alcuni aspetti che mi allertano e che mi mettono in modalità APE “Attenzione Pericolo Etico”:
- Gli individualisti ad oltranza: sono quelli che, spesso, hanno più successo in azienda, perché si mettono degli obiettivi e li perseguono a tutti i costi. Alcuni di loro sono pure simpatici, finché non date loro fastidio.
- L’eccesiva flessibilità: se il comportamento di una persona varia troppo a seconda delle situazioni, è possibile che non abbia una bussola valoriale chiara.
- Poco interesse per l’introspezione: non pensa molto ai propri valori e non ha idea di come gli altri lo percepiscono; può però interessarsi alle formazioni di padronanza personale perché le vede come un’occasione di apprendere “trucchetti” per manipolare meglio gli altri.
- Non utilizza i prodotti / i servizi che vende: un venditore che parla bene ma razzola male è forse efficace nelle vendite ma non ha credibilità, neanche nei confronti del datore di lavoro che contribuisce ad arricchire.
Cosa fare per essere migliori?
La premessa doverosa è che vendere in modo etico è più facile quando hai più clienti di quelli di cui avresti bisogno.
Tuttavia, credo sia importante renderci conto che facciamo tutti parte di un grande meccanismo che, in qualche modo, porta avanti un modo di fare business che è tossico per tutti: l’azienda, la società, le nostre vite.
E per questo ognuno di noi – datori di lavoro, recruiter o agenti di commercio – può avere un ruolo nel cambiare le cose. In quest’ottica, possiamo migliorare il nostro processo di vendita, rendendolo più etico, presetando attenzione ad alcuni, semplici aspetti:
- Presentare le informazioni in modo accurato e onesto: non nascondere i piccoli difetti della soluzione che offriamo; non parliamo male della concorrenza; rispondiamo alle domande del cliente in maniera trasparente.
- Prendersi le proprie responsabilità: un prodotto è in ritardo? Non diamo la colpa alla segretaria o alla logistica; prendiamo a carico l’inconveniente e, soprattutto, non scarichiamo il barile – per il cliente che la colpa sia nostra o del magazziniere, poco importa.
- Considerare i veri bisogni del cliente: quando disegniamo i nostri processi di vendita e diciamo che il cliente è al centro, non dobbiamo ragionare come se fosse al centro, sì, ma della ragnatela. Ogni tanto può capitare che il miglior consiglio da dare al cliente è di non comprare da voi in quel momento.
- Ragionare in termini di ottimizzazione e non di massimizzazione: cercate di trovare una situazione che sia di reciproco vantaggio e non cercate di spennare il cliente particolarmente gentile. Non se lo merita. E neanche voi.
- Non vendere merda: questo è probabilmente il consiglio definitivo.
Cosa ne pensi?
All’età di tre anni ho deciso di diventare vegetariano; in seconda elementare, la maestra ha convocato i miei genitori perché “non era normale” che un bambino conoscesse tutti i nomi dei funghi in latino; a 13 anni ho amato per la prima volta senza sapere che non era amore; a 15 ho smesso di fare decathlon perché odiavo la competizione; ancora minorenne, sono stato processato da una corte marziale. A 20 anni mi sono sposato e a 23 ho divorziato; a 25 anni dirigevo una start-up che ho fatto fallire; a 29 ho avuto la meningite, sono morto ma non ho saputo restarlo. A 35 anni ho vissuto una relazione poliamorista e sono diventato padre di figli di altri. A 42 mi sono licenziato da un posto fisso, statale e ben pagato per fondare l’Agenzia per il Cambiamento Purple&People e la sua rivista Purpletude. A parte questo, ho 20 anni di esperienza nelle risorse umane, ho studiato a Ginevra, Singapore e Los Angeles, ho un master in comunicazione e uno in digital transformation e ho tenuto ruoli manageriali in varie aziende e in quattro lingue diverse: l’ONG svizzera, la multinazionale francese, le società americane quotate in borsa, la non-profit parastatale. Mi occupo soprattutto di comunicazione del cambiamento, di organizzazioni aziendali alternative e di gestione della diversità – e scrivo solo di cose che conosco, che ho implementato o che ho vissuto.
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