Dal 2007 mi occupo del Career Service di Fondazione Campus…
Negli ultimi decenni la nostra concezione della cultura del lavoro ha perso spessore, valore e soprattutto identità. Ormai tutti parlano di lavoro come quella cosa che può darti da vivere, un qualcosa che purtroppo non possiamo evitare, ma che cerchiamo di raggirare in tutti i modi.
Anche lo studio in molti casi è diventato il pretesto per allontanare il più possibile il fatidico momento di ricercare il lavoro più adatto a noi. E diventare così autonomi.
Perché il lavoro è responsabilità condivisa, è l’unica cosa che unisce veramente una comunità.
Quando si lavora si compie sempre un’azione che ci porta a raggiungere un determinato obiettivo favorendo così una miglioria alla società in cui siamo inseriti. Non si lavora mai per sé stessi neppure quando facciamo del nostro hobby il nostro lavoro.
Il lavoro stesso assume rilevanza solo nel momento esatto in cui diventiamo consapevoli della responsabilità che porta in sé. Poter fare bene il proprio lavoro non dovrebbe essere peculiarità di poche menti, ma una volontà e un diritto dettato da motivazione ed entusiasmo.
Sì, perché quando ci si confronta con gli altri: quando si fa qualcosa per l’utilità comune, dobbiamo anche affrontarlo con il giusto entusiasmo che rappresenta il motore migliore per andare avanti, obiettivo dopo obiettivo.
Il lavoro soddisfa i nostri bisogni?
La letteratura scientifica ha individuato questa caratteristica nella motivazione, che dall’etimologia latina della parola individua qualcosa che spinge a muoversi: “atto a muoversi”, ma che richiama anche il francese motif, ovvero darsi un motivo sul perché facciamo le cose. Darsi un obiettivo.
Maslow con la sua teoria dei bisogni ha indicato nel soddisfacimento dei bisogni la chiave di volta per stimolare sempre questa motivazione. Una volta che hai soddisfatto i bisogni considerati primari (respiro, alimentazione, sesso, sonno, omeostasi), puoi ricorrere a soddisfare i bisogni “secondari” che stanno uno sopra l’altro a forma piramidale per far capire che più raggiungi obiettivi di soddisfazione alla base, più ricerchi altro che ti elevi.
Però una volta raggiunto l’apice e sei nello spazio dell’autorealizzazione, Maslow non ci offre una valida alternativa, anche se è utile per suggerirci che la creazione di obiettivi volti al soddisfacimento dei bisogni è un fattore determinante di motivazione in maniera più massiccia che il denaro.
Gli stimoli giusti
La teoria X e la teoria Y di Douglas McGregor, applicate dagli anni ‘60, ci conducono a una lettura di massima molto efficace. Le due teorie mettono a confronto due “stili” di gestione delle risorse umane in azienda.
La prima considera un ambiente in cui il datore di lavoro tende a vedere l’apporto professionale dei dipendenti in maniera restrittiva per far evitare comportamenti di difficile gestione. Questa restrizione porta il lavoratore a cogliere il mero senso utilitaristico del lavoro senza portare a nessun tipo di miglioria nel suo lavoro data anche la mancanza di responsabilità applicata e di possibilità di giudizio.
La teoria Y invece prevede una netta contrapposizione di visione in cui l’organizzazione tende a creare un clima positivo basato sulla fiducia dei lavoratori e sulla partecipazione alle scelte strategiche attraverso la libertà di agire e la delega.
Queste teorie tendono a farci riflettere ancora una volta sull’importanza di un’organizzazione aziendale di stimolare un contesto professionale volto alla creazione e al raggiungimento di obiettivi specifici proprio per allenare la motivazione nei dipendenti. Puntare su uno sviluppo di ambiente tipico della teoria Y porta a dare massimo rispetto alle persone e a valorizzare il loro “essere parte dell’azienda” perché il contesto si muove a piccoli passi, per obiettivi. E la pratica insegna che non c’è cosa migliore per lo sviluppo di una motivazione continua nel lavoro quotidiano…
Avere degli obiettivi fa bene alla motivazione
Perfino la mia professoressa di storia, quando ci vedeva stanchi e annoiati di stare ad ascoltare in aula, ci diceva che per stimolare l’interesse occorre darsi un obiettivo preciso, occorre (per l’appunto) lavorare nell’individuare un obiettivo specifico che mi permetta di tener vivo l’interesse. E questo obiettivo non poteva essere rappresentato solo dal voto finale dopo l’interrogazione, ma da una serie di esercizi che portavano alla conoscenza di un periodo storico, di un contesto, di quello che una situazione passata può ancora dirci oggi.
È questo il motivo principale. Occorre quell’obiettivo che ci permetta di vivere il lavoro come qualcosa che abbiamo voglia di fare. Perché i soli soldi, principale motore di motivazione, non riescono a tenere sempre vivo l’interesse: quando c’è la sicurezza di un posto fisso, di un’entrata mensile e di uno stile di vita coerente con il nostro guadagno, non vediamo comunque l’ora che arrivi il venerdì o le tanto desiderate ferie.
C’è quindi qualcosa ancora che manca.
È tutto nella testa: cambiamo approccio
Vivendo in un sistema che non permette di poter guadagnare sempre di più giorno dopo giorno (anche se nelle situazioni migliori gli scatti di anzianità lo rendono possibile per pochi euro), dobbiamo cercare altro e non dobbiamo riporre nell’elemento economico il successo della nostra giornata lavorativa.
È un fattore anche e soprattutto di scelta. Che tipo di lavoro abbiamo scelto e perché? Cosa ci ha portato a svolgere quel lavoro: il soddisfacimento di un bisogno primario o il cercare di arrivare in cima alla nostra piramide?
Tendiamo a cercare lavoro dove ci è più comodo, dove i nostri desideri si sposano alla sola promessa economica o al fatto di averne trovato uno, e in tempi di crisi strombazzata dai media a più non posso, alla fine quasi ci crediamo… anche se il grande problema sta proprio nell’approccio culturale sbagliato che rivolgiamo al lavoro.
Il lavoro dovrebbe essere una pratica che nasce come attività che unisce le persone, che costruisce identità, che dà dignità ai singoli. Purtroppo la crisi culturale sta proprio in questo approccio distorto in cui cerchiamo di far valere il denaro e “l’offerta che non possiamo rifiutare”.
Dobbiamo invece iniziare a vedere il lavoro come qualcosa che ci arricchisce non il portafogli, ma lo spirito, per la forte valenza sociale e identitaria. Solo così la motivazione e l’entusiasmo diventano protagonisti dei nostri giorni, creando consapevolezza e relazioni.
È opportuno cambiare approccio culturale quanto prima.
È una questione urgente, non è più accettabile lamentarsi quando è lunedì e gioire il venerdì.
Riprendiamoci il nostro lavoro e la nostra identità.
Cosa ne pensi?
Dal 2007 mi occupo del Career Service di Fondazione Campus di Lucca ovvero supporto gli studenti dei corsi di laurea e dei corsi professionali della realtà formativa a orientarsi nel mondo del lavoro e trovare le opportunità formative e professionali più confacenti alle loro competenze e attitudini cercando di favorire il placement. Nel corso degli anni ho ampliato le mie conoscenze di comunicazione e marketing per comprendere la relazione tra le persone e il lavoro focalizzando l’attenzione sulle tecniche di personal branding e reputazione offline e online.