All’età di tre anni ho deciso di diventare vegetariano; in…
Quando scegli il viola come colore del tuo brand, amici e conoscenti esitano a esplicitare il proprio pensiero, ma qualcuno lo fa: “lo sai, vero, che il viola porta sfiga”? E di solito si apprestano ad aggiungere “a teatro”, come se fosse una rassicurazione.
Negli ultimi mesi abbiamo assistito a due grandinate distruttive; una nostra pratica commerciale è andata persa in un ufficio dell’amministrazione pubblica svizzera (il che è tutto dire); abbiamo avuto problemi tecnici importanti con il nostro provider (ora ex); al momento di organizzare una call con un contatto professionale, le è morta la nonna; io sono senza acqua calda da 4 giorni e per farmi la doccia vado negli alberghi a ore.
Le persone che non credono nella sfortuna… non amano parlarne
Il fatto stesso di parlare apertamente di questi eventi sfortunati, per qualcuno è sfidare la sorte, e gli studi in questo campo dimostrano che le persone, anche quelle che si professano non superstiziose, tendono a credere che il fatto di menzionare un evento negativo aumenti la possibilità che esso accada.
Le ragioni sono psicologiche: evocare un’immagine, porta il nostro cervello ad elaborarne le possibilità e, di conseguenza, ad attivare dei meccanismi di pre-occupazione.
Quindi tutto a posto? La sfiga è solo una fantasia delle nostra testa? No, perché la percezione di pericolo potenziale è reale e va disinnescata. Per alcuni basta toccare ferro, per altri è necessario una elaborazione più articolata.
Sfiga in azienda
Nella vita, così come nelle aziende, succedono cose.
Alcune di queste cose hanno impatti potenzialmente negativi (e quindi ci pre-occupano). Il cambiamento, di qualsiasi tipo, fa parte di queste cose che succedono.
A me si rompe la caldaia, alla grande industria petrolifera un uragano nel golfo del Messico danneggia le raffinerie che non funzionano per tre settimane; la grandine rovina la carrozzeria dell’auto che dovevi vendere tra due giorni, la giovane start-up perde un finanziamento importante; la nonna del mio contatto peggiora e le cure non bastano più, finché ci lascia, così come la multinazionale farmaceutica deve abbandonare la ricerca su un farmaco che sembrava promettente ma che si è rivelato inefficace; il nostro provider ha problemi tecnici, mentre la rete ospedaliera inglese viene hackerata da un virus che blocca tutti i computer.
Non dico che la sfiga non esiste perché porta sfiga. Ma il cambiamento, quello sì, esiste. A tutti i livelli, in ogni momento, a volte è prevedibile, a volte no, e non c’è nulla che possiamo fare. Invece, sulle pre-occupazioni delle persone, c’è molto da fare. E si può prevedere in anticipo. In particolare è utile intervenire su tre aree distinte:
- la comunicazione, per stimolare la collaborazione e ispirare l’impegno di tutti;
- l’assessment dell’attitudine dei collaboratori (ma non solo) rispetto al cambiamento e, soprattutto, l’impatto potenziale che esso avrà sui vari stakeholders;
- formare la leadership al sostegno del cambiamento e fare in modo che i manager si sentano responsabili del processo.
La questione dell’attitudine dei collaboratori nei confronti del cambiamento è drammaticamente sottovalutata: si tende a dire “eh vabbeh, ormai dobbiamo fare con ciò che abbiamo”. Che ha lo stesso livello di coerenza di pretendere che Zermatt (o Cervinia) possano diventare d’un colpo stazioni balneari.
Infatti c’è questa idea comune che i collaboratori resistenti al cambiamento soffriranno molto durante il processo e che, come risultato, o si adatteranno o se ne andranno, come se fosse una questione di selezione naturale.
Le statistiche dicono qualcosa di diverso: se il cambiamento è implementato in maniera approssimativa, più del 50% dei collaboratori favorevoli al cambiamento sono a rischio partenza. Nello stesso caso, invece, i collaboratori che preferiscono la stabilità reagiscono con un engagement maggiore e con rischi di turn-over significativamente più bassi.
In pratica, se implementiamo male il cambiamento, fidelizziamo gli oppositori e perdiamo chi ci sostiene. È un dato preoccupante, se consideriamo che il 75% dei progetti di cambiamento fallisce.
Per questo motivo è utile elaborare una strategia di gestione del cambiamento: perché le sorprese, i colpi di scena, le sfighe e i cambiamenti succedono. La differenza la si fa dopo, nel modo di reagire e di adattarsi.
Cosa ne pensi?
All’età di tre anni ho deciso di diventare vegetariano; in seconda elementare, la maestra ha convocato i miei genitori perché “non era normale” che un bambino conoscesse tutti i nomi dei funghi in latino; a 13 anni ho amato per la prima volta senza sapere che non era amore; a 15 ho smesso di fare decathlon perché odiavo la competizione; ancora minorenne, sono stato processato da una corte marziale. A 20 anni mi sono sposato e a 23 ho divorziato; a 25 anni dirigevo una start-up che ho fatto fallire; a 29 ho avuto la meningite, sono morto ma non ho saputo restarlo. A 35 anni ho vissuto una relazione poliamorista e sono diventato padre di figli di altri. A 42 mi sono licenziato da un posto fisso, statale e ben pagato per fondare l’Agenzia per il Cambiamento Purple&People e la sua rivista Purpletude. A parte questo, ho 20 anni di esperienza nelle risorse umane, ho studiato a Ginevra, Singapore e Los Angeles, ho un master in comunicazione e uno in digital transformation e ho tenuto ruoli manageriali in varie aziende e in quattro lingue diverse: l’ONG svizzera, la multinazionale francese, le società americane quotate in borsa, la non-profit parastatale. Mi occupo soprattutto di comunicazione del cambiamento, di organizzazioni aziendali alternative e di gestione della diversità – e scrivo solo di cose che conosco, che ho implementato o che ho vissuto.