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Il mondo transitorio che sognava di diventare definitivo

Il mondo transitorio che sognava di diventare definitivo

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Sto leggendo in questo periodo molti pezzi che riguardano lo spostamento dall’offline all’online, soprattutto rivolti ai professionisti. Ogni professionista ha un modo suo di gestire il lavoro da casa, e ne conosce pregi, difetti e modalità di portare dagli uni agli altri; conosce la strategia del pomodoro, la differenza tra civette e allodole, gli orari in cui dovrebbe spegnere il cellulare e quelli in cui invece lo spegne davvero dopo un’ultima controllata a WhatsApp, un ultimo video su YouTube, un occhio alla mail, Facebook.

Credo che molti dei consigli che abbiamo ricevuto durante questa quarantena incappino tutti nello stesso errore di fondo: ragionano su ciò che sta accadendo come se fosse un problema, e invece è una condizione. C’è un’enorme differenza.

Un problema è una situazione che devi risolvere per poter tornare allo stato precedente, o per poter migliorare il tuo stato precedente. Se sei disidratato, bevi e torni idratato; se non hai soldi, lavori per migliorare le possibilità del tuo portafogli.

Ciò che ci sta accadendo, invece, non è semplicemente uno stallo che riconduce al vecchio mondo, né una piattaforma verso il nuovo mondo, ma è un mondo a sé stante. Transitorio, speriamo tutti in attesa del vaccino; ma che modificherà nel profondo il mondo sociale, politico, economico, culturale. Non ho mai visto, a proposito di cultura, tanta richiesta: Netflix che deve ridurre la banda per riuscire a soddisfare le richieste di utenza, Amazon che riduce gli acquisti spediti col metodo Prime per non mettere a rischio i propri lavoratori, le librerie che – pur col calo dovuto alla chiusura dei locali – continuano a spedire volumi; i giornali, compulsati di continuo in cerca di notizie. Ciò che c’era prima non ci sarà semplicemente più, perché ci sono condizioni psicologiche avverse a ricrearlo e perché sono state create nuove possibilità che hanno letteralmente cambiato la nostra vita. Abbiamo assistito a una brusca frenata che, come amo dire, ci ha portato da una condizione di present tense in cui eravamo immersi e in cui potevamo ragionevolmente programmarci a settimane e mesi e trimestri a un presente in cui il futuro non esiste perché schiacciato contro un muro di dubbi. Come avremo il coraggio di dire alle persone che hanno scoperto un nuovo stile di vita, durante il coronavirus: Tutto quello che c’è di buono lo devi perdere, semplicemente perché vogliamo tornare a prima?

Prendiamo l’esempio dello smartworking. È un problema davvero non indifferente. Lavorare da casa pare non influenzi in negativo la produttività, modifica tantissimo le spese – pensiamo già solo alla benzina -, cambia le abitudini, stravolge la socialità. È un bene, lo smartworking? Come tutto durante una condizione complessa, dipende: è un bene per le spese, l’inquinamento atmosferico e la possibilità di recuperare tempo durante le nostre giornate; è un male se la giornata diventa solo lavoro, sovrapponendo noi o i nostri datori di lavoro la casa con l’ufficio, o se prendiamo l’abitudine di trascurare la cura personale perché si sono attenuati i contatti sociali.

So cosa sta insegnando a me il coronavirus. Prima di tutto, a osservare il mondo. Se fai affari, devi osservare il mondo meglio di prima, devi parlare con le persone più di prima, devi essere più empatico di prima. Si sta avvicinando un cambiamento economico che modificherà in profondità il nostro modo di approcciarci al consumo – non torneremo alla normalità propriamente detta, quale che sia quella normalità, fino al vaccino, e tra sperimentazioni e effettività dei vaccini ne avremo per un altro anno; e intanto per un anno la nostra vita sarà cambiata. In quest’anno alcune attività sopravvivranno, altre cesseranno di essere perché non sono riuscite a resistere alle nuove condizioni, altre ancora perché non hanno saputo cogliere lo spirito del tempo.

Questa è la sola certezza che ho al momento, come operatore della cultura e come imprenditore: se vogliamo sopravvivere in questo tempo dobbiamo capire questo tempo, studiarlo giorno dopo giorno senza farci sconvolgere da tonnellate informative che ci sono solo da fardello.

C’è bisogno di costruire, e credo ci sarà bisogno di costruire proprio a partire da chi davvero ha voglia di esserci.

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