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Valentina

Valentina

Questa storia forse è triste, forse è felice; è l’unica storia nella quale posso mettere nomi veri.

Si chiamava Valentina, non ha mai saputo il mio nome – glielo avrò detto decine di volte, ma non lo ricordava o così diceva, mi chiamava in un modo che è un po’ imbarazzante e che quindi non indicherò. La conobbi a Bologna, erano i tempi della mia università, quando ne La conservazione metodica del dolore dico che mi scaldavo le mani alitandoci sopra, d’inverno, e che andavo a trovare una persona, era lei.

Era tossicodipendente, e lo sapevo. Aveva un quadro bellissimo in casa, l’aveva fatto lei, era di un cuore porpora trafitto da chiodi di garofano veri; le avevo detto cosa significasse, mi aveva detto: Ma tu non scrivi? Io scrivevo raccontini che non avevano spessore, per me scrivere era tenere il computer acceso di notte e farlo di nascosto da tutti, fu l’unica a dirmi allora che io ero quello che si nascondeva e non quello che si palesava.

“Dovresti capovolgerti. Mostrare quello che nascondi e nascondere quello che mostri, e che fa anche un po’ schifo”. Così mi disse.

Ci presentò Paolo, un amico comune, anche questo nome è vero perché so che non si ricorderà mai di me; non so di cosa si facesse, di certo pastiglie ai rave, di certo coca, forse altro, io sono epilettico e lei non mi ha mai coinvolto in niente. So che è stata la prima persona che mi ha fatto un’insalata con gli spinaci, io pensavo che gli spinaci andassero necessariamente cotti, e la prima persona che mi ha dato da mangiare dei fiori, io pensavo che i fiori andassero solo guardati.

Non ci amammo mai, ogni tanto era bianca di viso; io pensai che era la prima drogata che conoscevo, venivo dalla provincia dove i drogati sono tre e ne sai il nome (o così pensavo), non ti danno da mangiare gli spinaci, non ti danno dei fiori.

Tutto quello che ho scritto finora può dare l’idea che ci frequentammo parecchio. Non è così. Mangiai a casa sua qualche volta, due volte dormii da lei, ma per il resto sapevo che lei amava un altro, magro come Zanardi e cattivo come lui, e io, io lavoravo per pagare quelle cose che chiamavo vizi e che anni dopo mi spiegarono essere ciò che mi aveva salvato.

Un giorno la incontrai al Piccolo Bar, in piazza Verdi. Ero andato a ricevimento da Grandi, ricordo. Lei era ai tavolini fuori, aveva un registratore a cassette, ancora, benché andassero già i cd. Mi disse: Ascolta; condivise con me una cuffia.

(Perché mai non si condividono più le cuffie?)

Mi fece ascoltare Pale blue eyes dei Velvet Underground.

Mi disse: Quando scrivi, scrivi così.

Si grattò un’ascella.

Quelli che seguono sono due lassi temporali. Il primo è di qualche mese. La incontrai di fronte al teatro, ancora in piazza Verdi; le giornate erano di quel bianco imbarazzante, il sole che ti scardina le palpebre per quanto la primavera ti ricorda cosa davvero sia. Era bianca come un cencio, Valentina, e camminava quasi ondeggiando, malferma sulle gambe. Appena la vidi dissi: Questa non è droga.

In quell’istante di dolore così raggrumato, così intenso, la amai. La amai così forte che me ne ricordo nonostante l’epilessia mi abbia cancellato quegli anni; nonostante le abbia chiesto Come stai?, lei abbia detto: Dio, sia andata via.

Il secondo lasso è diversi anni dopo. Incontrai per caso a Bologna un’amica di università, si chiamava Antonella (non si ricorda sicuro di me, abbiamo solo fatto un seminario di cinema su Woody Allen insieme, con Quaresima), ci prendemmo un caffè. Mi raccontò del suo tumore al seno, aveva un seno incredibilmente bello, un seno di quelli che li vedi solo nei film francesi, e odi Belmondo. Le dissi di Valentina, se se la ricordasse. Mi disse: È morta di overdose, anni fa; sono andata al funerale, ma eravamo in pochi.

Questa storia forse è triste, forse è felice. Dice Cortázar che un racconto non deve rischiarare solo ciò che racconta, ma pulsare sul fuori, gettare luci pallide su un intero mondo, come una lanterna – se ci pensi – non illumina solo se stessa, ma dà visioni, a volte anche false, del mondo circostante. Di triste, incredibilmente, c’è la storia di una persona che ha sofferto tanto che io non posso non credere che quella dose eccessiva sia stata il suo addio.

Di felice c’è il marchio che ha lasciato. Se la ricordano in tanti, Valentina. In me ha lasciato un amore indicibile durato dieci secondi, e mai cancellato dall’oblio forzoso dell’epilessia; mi ha lasciato fiori che si mangiano, la coscienza che quando scrivi mica ti curi del significato, ma solo sei; una canzone che ogni volta che l’ascolto penso a lei.

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