Ventotto anni, vive in provincia di Firenze, è laureato in…
Mi scrivono:
“Caro Iacopo…
Sono un’insegnante, lavoro in provincia di Brescia in un Istituto Superiore nell’indirizzo professionale per i servizi sociosanitari. Nella mia materia ci occupiamo, tra le altre cose, di analizzare i servizi sociosanitari del territorio, e per me è sempre molto importante fare riflettere i miei ragazzi sull’importanza di usare le parole giuste. Nel fare ciò cerco di impegnarmi io stessa a riflettere sempre sul mio modo di esprimermi e riferirmi alle persone, alle cose, agli eventi.
Venerdì scorso, con una delle mie classi con cui eravamo in uscita didattica, salgo su un autobus. L’autobus è nuovo, c’è lo spazio per la sedia a rotelle, la pedana per salire e scendere, i pulsanti al posto giusto, sembra tutto ok. L’autobus è pieno e io mi metto proprio accanto allo spazio per le sedie a rotelle. Tra un’occhiata e l’altra ai miei a ragazzi mi scappa l’occhio sul cartello affisso nel posto riservato:
Zona riservata alla carrozzella per handicappati.
Rimango perlomeno basita. Lo fotografo e appena arrivata a casa mando una segnalazione/reclamo all’azienda. Qualcuno mi risponde che “la sto facendo troppo lunga”, che l’importante è che l’autobus sia accessibile. Per quanto possa essere vero, a me, nel 2019, su un mezzo pubblico, continua a sembrare inaccettabile una simile scritta!
Pertanto insisterò e ragionerò con i miei alunni su quanto visto, nella speranza che anche loro possano imparare ad attivarsi per non accettare questi gesti che per me sono di inciviltà.”
Cara Francesca, grazie intanto per il gran lavoro culturale che svolgi con i tuoi ragazzi. E non mi riferisco al “semplice” mestiere di insegnante, quotidiano, in aula, ma a quello più profondo e “comunicativo”, aspetto secondo me fondamentale e indispensabile per portare un cambiamento positivo della nostra società. Raccontare ai più giovani nuove prospettive, offrendo loro vari punti di vista, è il modo migliore per educare all’empatia.
Come non smetterò mai di ripetere, fino alla noia: quando cambiamo il modo di chiamare “qualcosa”, quel “qualcosa” cambia e di conseguenza cambia anche il modo in cui le persone si approcciano a quel “qualcosa”. Le barriere architettoniche, in fin dei conti, vengono create dalle barriere mentali di chi non sa cosa sia realmente la disabilità, e il non saperlo lo si denota proprio dai termini che vengono utilizzati in riferimento ad essa.
In molti non capiscono perché ci ostiniamo ancora oggi a ribadire l’importanza delle parole sui fatti: “Non mi importa come vengo definito, l’importante è che mi si diano i servizi di cui ho bisogno!” replicano i più quando evidenzio gli errori comunicativi in certe occasioni. Il punto è che non ci saranno mai dei “fatti” concreti e sinceri, duraturi, se non si è compresa realmente la naturalezza e la spontaneità che dovrebbe star dietro alla costruzione di uno scivolo, l’installazione di un montascale, l’acquisto di un autobus con le pedane o l’organizzazione di un servizio di supporto e assistenza come quello svolto, ad esempio, da un Operatore Socio Sanitario a domicilio o da un insegnante di sostegno (possibilmente puntuale e preciso il primo giorno di scuola, e non a metà Ottobre come spesso accade…).
Purtroppo, o per fortuna, le persone non sanno cosa “sia” realmente la disabilità, cioè una condizione momentanea che si manifesta quando ci ritroviamo in un contesto sfavorevole, quando cioè non abbiamo i giusti strumenti per poter fare quel che fanno gli altri e, perciò, per auto-determinarci e scegliere il futuro che preferiamo. Per questo finiamo col trattare anche il nostro territorio e le nostre città in modo superficiale, generando ostacoli ad ogni angolo (“erano solo cinque minuti!” si giustifica puntualmente chi lascia l’auto sul marciapiede, ad esempio, senza pensare che non solo una persona con la carrozzina ma anche un anziano col bastone, una mamma con un passeggino o un ragazzo con delle momentanee stampelle non sarebbe potuto passare da quel punto).
Se una ragazza mi invita a cena a casa propria ed io ho qualcuno che può darmi un passaggio in un’auto accessibile; se la ragazza abita al quinto piano di un palazzo storico ma c’è un pratico ascensore; se per entrare nel suo appartamento non ci sono gradini; se per cenare utilizziamo un tavolo ad un’altezza comoda anche per la mia carrozzina… perché, in quell’occasione, dovrei sentirmi disabile?
E così, tornando al messaggio ricevuto: “Carrozzella”, dunque? No, sarebbe meglio parlare di “carrozzina”, al massimo “sedia a rotelle”. Ma soprattutto: “Handicappati”? Assolutamente no, anche l’OMS ha scelto di eliminare definitivamente questo termine dai suoi documenti ufficiali (e pensate, lo ha fatto nel lontano 1999). E allora come si dice? Molto semplice, “persone con disabilità”, perché prima di tutto siamo persone, con pregi e difetti ma sempre persone, e non dobbiamo smettere di ricordarlo. Nessuno è il suo handicap, la sua cartella clinica o la propria carrozzina, così come nessuno sarà mai il proprio paio di scarpe. Solo persone, prima di tutto.
Scrivimi una lettera, uno spunto o una tua riflessione:
segnalazioni@iacopomelio.it
Cosa ne pensi?
Ventotto anni, vive in provincia di Firenze, è laureato in Scienze Politiche (curriculum in "comunicazione, media e giornalismo"). Prova a raccontare le storie degli altri come giornalista, scrittore e attivista per i diritti umani e civili. Vincitore del Premio "Cittadino Europeo" e nominato "Cavaliere dell'Ordine al Merito della Repubblica Italiana" da Sergio Mattarella. Presidente della Onlus #Vorreiprendereiltreno.