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Manuela

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Un racconto di Ivano Porpora: Manuela

Avevo un amico.

Ogni volta che scrivo una frase come questa, mi prende una piccola fitta. Sono troppi gli amici che avevo e non ho più, like dispersi su Facebook, commenti che al contatore segnano sempre un curioso meno uno, e al di là delle colpe e delle non colpe – loro sono convinti sia responsabilità mia, io che sia loro, pare pallavolo col pallone che ha una miccia ad accorciarsi; in alcuni casi eravamo talmente diversi che non si può più nemmeno parlare di colpe ma di risultati – pensare che un rapporto c’è stato e non c’è più mi rimanda un retrogusto amaro che, anche a distanza di anni, permane.

Ma comunque.

Avevo un amico.

Ed eccolo che torna, il retrogusto. Lo sentite? Come si può parlare all’imperfetto di un sentimento? Lo fa Gesualdo Bufalino nell’incipit di Argo il cieco, dice Fui giovane e felice un’estate, nel cinquantuno. Né prima né dopo: quell’estate.

Avevo un amico. Per me lui, che non posso nemmeno più dire che si comportò male – gli uomini sono come acqua, si comportano come credono, allagano i territori depressi e fuggono da quelli alti, creano acquitrini dove l’acqua non corre -, era quello che lesse o mi disse di leggere Goethe a diciassette anni, che studiava storia romana, s’appassionava di architettura… E pazienza se poi si appassionava di architettura ma poi studiò economia, se da Goethe passò a non leggere, se tutte le volte che lo sentivo parlare di storia romana – sempre meno – mi ripeteva gli stessi concetti, con lo sguardo che piano gli s’incanutiva dentro…

Una sera andammo al lago, in discoteca. Io non ero né sono mai stato da discoteca, mi innamoravo delle cameriere, mi nascondevo nei cessi, la musica mi disturbava; non sopportavo di dover dire Ciao, sentirmi rispondere EEEHHH?; sperare di aver decodificato giustamente un nome nel chiasso, sapere di essere un ottocentesimo della torta. E poi andavano di moda quelle orrende frangette, sai?

Prima passammo in un postaccio, mi dissero essere un locale rinomato, c’era una donna vestita da ghepardo che si strofinava contro un divano, una preda vestita da predatrice. “Andiamocene”, gli dissi; arrivammo a ‘sto posto. C’era la drink card, avremmo bevuto, credo; ma al momento in cui arrivammo il locale era caldo, gli feci cenno che andavo a mettere giù la giacca. Al guardaroba vidi questa donna bellissima, avrà avuto dieci anni più di me, i capelli a larghi boccoli. Si occupava dei cappotti, sorrideva, scambiammo una parola, le dissi: Non mi dimenticherò mai di te.

Lei rispose, ridendo, con un riso che ricorda le sorgenti che si scongelano all’arrivo della primavera: Sì, lo dicono tutti, ma poi si dimenticano.

E io: Io sono diverso, ti ricorderò per sempre.

E infatti sono qui, Manuela, e chissà che fine hai fatto, e se sorridi ancora come quel giorno al lago.

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