All’età di tre anni ho deciso di diventare vegetariano; in…
Ci sono alcune cose veramente tristi al mondo: il minestrone è una di queste; un’altra, è il fatto di non capire che la vulnerabilità possa essere una forza. Un vero leader – per quanto desueta e imprecisa sia questa immagine di qualcuno che conduce gli altri – è comunque una persona conscia della propria vulnerabilità.
Ogni volta che ne parlo, mi rendo conto che è un concetto che sciocca. Anzi: infastidisce. Ho letto molti commenti stizziti su questo argomento dalla parte di persone che hanno fatto della simulazione una seconda pelle, quella che al lavoro prende le botte e i rimproveri al posto loro.
Eppure sono convinto che nelle nostre aziende ci sia spazio per la vulnerabilità e, anzi, sia necessaria: vediamo perché.
Non è debolezza
La vulnerabilità è la predisposizione a essere facilmente attaccati. L’etimologia della parola viene da “vulnus”, che in latino significa “ferita”, “lesione”. Forse per questo motivo abbiamo tendenza a pensare che una persona vulnerabile vada difesa, perché, fondamentalmente, la consideriamo debole.
Nei suoi lavori sul binomio vulnerabilità/coraggio, Brené Brown ha definito la vulnerabilità come la volontà di mostrarsi e essere visti dagli altri nonostante un esito incerto. In quest’ottica, ogni atto di coraggio include in qualche modo l’espressione della propria vulnerabilità. Infatti se si è sicuri del risultato, non è più coraggio: è certezza.
Questo aspetto è fondamentale perché alla base del miglioramento continuo e, a maggior ragione, dell’innovazione, c’è sempre una parte di rischio e di insicurezza, che consiste nel fare le cose in modo diverso, nel prendere strade differenti rispetto a quelle sicure e conosciute.
Per questo motivo una cultura aziendale che tende a reprimere la vulnerabilità dei propri collaboratori, disincentiverà anche i comportamenti che portano alla creazione di qualcosa di nuovo. E quindi perderà un importante vantaggio competitivo.
Gli artisti già lo sanno
Nella letteratura e nei testi delle canzoni, questo concetto di forza che affonda le proprie radici nella vulnerabilità è piuttosto comune. Probabilmente, perché si tende a farsi domande sulla natura delle relazioni e sugli spazi in cui ognuno di noi può essere autentico.
È normale quindi che le palestre di allenamento della vulnerabilità siano proprio le relazioni di coppia, e questo innalza una ulteriore barriera: raramente ciò che siamo nell’intimità ci sembra adeguato anche al lavoro.
I’m strong enough
To be weak in your arms
(Neneh Cherry – Move with me)
Ma concretamente, in cosa si traduce questa vulnerabilità in un contesto professionale? Ci sono tante casistiche quante sono le possibilità di interazione; ne ho scelte alcune dalla mia esperienza personale:
Riconoscere i propri errori
È probabilmente la più evidente prova di vulnerabilità, e attenzione: non si tratta di dire “sì, va bene, ho sbagliato” e basta. È importante non minimizzare gli errori, o ancora peggio nasconderli. Si deve affrontare la questione del proprio errore e impegnarsi a risolvere gli eventuali danni a esso associati.
Il che ci porta a un altro aspetto fondamentale:
Sollevare le questioni difficili
Vale sia per i collaboratori senza responsabilità di inquadramento che per i manager: quando qualcosa non va, bisogna parlarne.
Qualche anno fa ho proposto un lavoro particolare ai manager dell’azienda per cui lavoravo: ho chiesto loro di immaginare di aprire la propria società e di avere la possibilità di “rubare” due risorse al datore di lavoro attuale, mentre per altre due avrebbero avuto la garanzia di non ritrovarsele mai nel loro organico. In pratica, la domanda era formulata come “chi prenderesti con te e chi non vorresti neanche morto dei tuoi attuali collaboratori”.
Ho in seguito incrociato i nominativi che mi hanno dato con le valutazioni annuali degli ultimi quattro anni: più del 70% delle persone messe nell’ipotetica lista nera aveva prestazioni almeno buone, sempre secondo quegli stessi capi che non le avrebbero mai assunte.
Qual era il problema? Semplice: i manager si mostravano indulgenti nelle valutazioni per evitare di dover avere delle discussioni spiacevoli con persone che erano sì dei buoni professionisti ma che presentavano problematiche di tipo caratteriale o comportamentale.
Per parlare apertamente, ci vuole coraggio, certo. Ma è dal confronto su temi spinosi che possono nascere i veri cambiamenti che miglioreranno il clima di lavoro e, di conseguenza, anche le prestazioni collettive.
Non aver paura di chiedere aiuto
Non c’è niente di male nel dire “non lo so” e a chiedere aiuto quando necessario.
Una cultura aziendale che non gestisce bene la vulnerabilità avrà tendenza a scoraggiare le richieste di aiuto, che vengono viste come un’ammissione di colpa. Questo porterà inevitabilmente a fare e a perpetrare errori (e ad affannarsi a correggerli e/o a nasconderli prima che qualcuno se ne accorga: uno spreco enorme di tempo e di energie).
Su un campione di 1’000 manager, Brené Brown ha rilevato che saper chiedere aiuto era il principale indice di una sana relazione di fiducia. In pratica, nessuno si fida veramente di chi fa finta di essere infallibile.
La forza della comunicazione vulnerabile
Offrire il proprio fianco scoperto, dimostrando vulnerabilità, è un tratto tipico delle persone altruiste.
Recentemente ho avuto l’opportunità di scambiare alcuni messaggi con Adam Grant, professore di psicologia delle organizzazioni alla Wharton e autore di “Give and Take”, tradotto in italiano come “Più dai e più hai”.
Uno dei suoi lavori più interessanti è stato quello di definire gli stili di reciprocazione, vale a dire le modalità con le quali interagiamo con gli altri. Adam ha tracciato tre profili che corrispondono ad altrettanti stili di azione:
- il giver, che antepone il dare al ricevere, e che potremmo tradurre con la parola “altruista”; sono le persone focalizzate sugli altri e che tendono a darsi completamente. Sono guidate dal desiderio di contribuire al successo degli altri, di offrire il loro contributo in ogni contesto.
- il matcher, che nel rapporto dare-avere punta al pareggio e che potremmo quindi chiamare “l’equilibrato”; sono persone che si preoccupano di trovare un equilibrio, sia quando è a loro favore che quando invece sono in debito con qualcuno. Fanno un po’ da arbitro tra le altre due categorie, premiando i giver e sanzionando i taker.
- il taker, che prende e basta e che mi piace soprannominare “Asso pigliatutto”; sono persone incentrate su loro stesse e sui propri interessi che coltivano in ogni occasione, anche a discapito dei colleghi. Interagiscono con gli altri per ottenere qualcosa e limitano il loro contributo effettivo al minimo, come se dare fosse una perdita di preziosa energia.
Mentre scrivevo la bozza dell’articolo che state leggendo, ho più volte avuto chiaro in testa un esempio illustre di altruista vulnerabile: il premier canadese Justin Trudeau, che non perde un’occasione per piangere in pubblico.
Il pianto di Trudeau è un segno di vulnerabilità e quindi di coraggio, e dimostra una rara sicurezza in se stesso: piangere in pubblico significa non preoccuparsi delle opinioni degli altri. In una società che stigmatizza questo genere di espressioni, soprattutto da parte degli uomini, è un momento di pura autenticità ed è anche un esempio per gli altri.
Infatti ci sono persone che faticano ad articolare e ad esprimere le proprie emozioni e che beneficeranno nel vedere qualcuno in posizione di potere esprimersi liberamente. Il risultato, cinicamente parlando, è che Trudeau viene considerato un vero leader e un esempio in grado di ispirare le persone.
Ma alla fine, chi ha veramente successo?
Secondo gli studi di Adam Grant, gli altruisti sono tra le persone che hanno meno successo in azienda. Questo è dovuto soprattutto al fatto che tendono a sacrificare le proprie ambizioni a sostegno di quelle degli altri.
Quindi, per la logica degli estremi, gli assi pigliatutto saranno quelli con maggiore successo?
Colpo di scena: no.
Le persone di maggiore successo in azienda sono nuovamente gli altruisti.
Proprio così: chi è maggiormente orientato agli altri, o riesce male o riesce benissimo, mentre le altre due tipologie tendono a posizionarsi nel mezzo della curva gaussiana.
Non è quindi vero che chi arraffa di più arriva più in alto. Abbiamo questa idea che bisogna prima arrivare all’affermazione di sé, e poi, se proprio, possiamo concedere qualcosa agli altri. L’attitudine altruista, al contrario, si riflette positivamente su chi ci sta attorno e si moltiplica invece di concentrarsi solo sulla nostra persona.
Dare senza paura
Nel 2011, Peter Fuda e Richard Bahdman hanno condotto uno studio qualitativo approfondito su sette CEO che avevano vissuto in prima persona una crescita personale e professionale importante.
La vulnerabilità era emersa come un punto centrale nel processo di miglioramento di tutti e sette, e includeva storie vere di brutte figure, situazioni imbarazzanti, confessioni pubbliche di incapacità, che avevano però tutte un punto in comune: le loro aziende avevano ottenuto risultati notevolmente migliori a seguito della condivisione dei propri timori e delle proprie fragilità da parte dei loro leader.
Anche questo, come abbiamo visto, è un modo di dare qualcosa di sé.
E qui si chiude il cerchio: il coraggio di dare in ogni occasione ci porta a dare anche quando siamo in una posizione di vulnerabilità.
Questo include dare fiducia al nostro capo quando affronteremo con lui o con lei una questione che ci sta rendendo difficile alzarci la mattina per venire al lavoro.
Include non aver paura di essere licenziati quando offriamo un feedback costruttivo, sebbene critico, a qualcuno che ha il potere di farci fuori.
Include condividere le informazioni generosamente, anche quelle che ci fanno sentire speciali e che contribuiscono a rendere difficile il nostro rimpiazzo.
Insomma, dare in modo incondizionato, anche al lavoro, ci rende persone libere.
E sono così libero che posso essere debole
(Lo Stato Sociale – Facile)
Cosa ne pensi?
All’età di tre anni ho deciso di diventare vegetariano; in seconda elementare, la maestra ha convocato i miei genitori perché “non era normale” che un bambino conoscesse tutti i nomi dei funghi in latino; a 13 anni ho amato per la prima volta senza sapere che non era amore; a 15 ho smesso di fare decathlon perché odiavo la competizione; ancora minorenne, sono stato processato da una corte marziale. A 20 anni mi sono sposato e a 23 ho divorziato; a 25 anni dirigevo una start-up che ho fatto fallire; a 29 ho avuto la meningite, sono morto ma non ho saputo restarlo. A 35 anni ho vissuto una relazione poliamorista e sono diventato padre di figli di altri. A 42 mi sono licenziato da un posto fisso, statale e ben pagato per fondare l’Agenzia per il Cambiamento Purple&People e la sua rivista Purpletude. A parte questo, ho 20 anni di esperienza nelle risorse umane, ho studiato a Ginevra, Singapore e Los Angeles, ho un master in comunicazione e uno in digital transformation e ho tenuto ruoli manageriali in varie aziende e in quattro lingue diverse: l’ONG svizzera, la multinazionale francese, le società americane quotate in borsa, la non-profit parastatale. Mi occupo soprattutto di comunicazione del cambiamento, di organizzazioni aziendali alternative e di gestione della diversità – e scrivo solo di cose che conosco, che ho implementato o che ho vissuto.