
Fabio Martinez è scrittore (ha pubblicato tre libri e Il…
Mi stava raccontando tutto e non ne potevo più. Non tralasciava nessun dettaglio, nemmeno uno, mentre io cercavo in tutti i modi di non immaginare nulla di quello che mi stava dicendo. Quante negazioni una dopo l’altra avevo pensate? Ecco, potevo distrarmi così, contando le negazioni nei miei pensieri. Niente, non ce la facevo comunque.
– È normale che mi piaccia affogarmi?
– Se ti piace, che male c’è?
– Ma che vorrà dire, secondo te?
– Cosa?
– Che cerco sempre di affogarmi.
– Che vuoi che ne sappia? Semplicemente che ti piace.
– A te piace?
– Non pensare a me. Piuttosto, a lui piace?
– Dice che, se sbavo troppo, gli dà fastidio. Si schifa,
– Forse non gli piaci abbastanza,
Davvero l’ho detto? Davvero le ho detto una cosa del genere?
– Scusa, non volevo.
– No, hai ragione, mi sa.
– È un cretino, non c’è altro da aggiungere. Non c’entri tu, è un cretino.
– Secondo me, invece, hai ragione…
– Ma no, che senso avrebbe fare tutto il resto, allora?
– …
– E se gli desse fastidio solo la saliva?
Lui era soltanto un cretino e io più di tutti, perché volevo interrompere quel discorso odioso ma lo stavo solo peggiorando.
– Sì, in effetti sarà solo quello. Il resto mi hai detto che va alla grande, no?
– Sì!
– E allora gli piaci senz’altro.
E lo pensavo davvero. Ora, però, mi aveva messo questo tarlo in mente: se piaceva anche a me affogarmi. Finalmente, riuscivo a non immaginare più lei e le sue storie ma, di contro, non potevo più evitare di immaginare me e non la stavo ascoltando più. Però le sorridevo e annuivo.
– Mi sa che la pausa colazione è finita.
– Non credo sia proprio una pausa, se ancora dobbiamo iniziare la giornata.
– Perché oggi sei così pignola?
– Che sto dicendo?
Mentre dicevamo così, arrivammo alla cassa, diedi direttamente la carta al tizio e gli indicai il tavolo. Mentre aspettavo notai un bambino appiccicato contro la vetrina dei dolci. Mi fece tenerezza. Poi, vidi accanto a lui un uomo che stava facendo la stessa cosa; anche lui premeva tutto contento il viso contro quel vetro e, appena fu il suo turno, indicò una monoporzione setteveli. Sorrisi e forse risi. Lui se ne accorse, ricambiò il sorriso ma arrossì tutto e si grattò un attimo la testa. Era imbarazzatissimo e questo mi fece ridere davvero. Forse lo stavo mortificando ma, in realtà, lo trovavo solo tanto dolce.
Alberta mi diede un colpo col gomito e con la testa mi fece cenno che aspettavano solo che digitassi il pin. Lo feci sovrappensiero e mi voltai di nuovo verso l’uomo di prima. Ma non lo trovai. Mi girai attorno ancora prima di uscire dal bar e fortunatamente lo vidi. Era seduto proprio dove prima c’eravamo io e Alberta. Lui era al mio posto, quindi mi dava le spalle ma si capiva che mangiava con gusto.
– Tutto bene?
– Sì. Perché?
– No, così. Che devi fare oggi?
– Lavorare?
– Lo so, ma cosa, studio o vai in ospedale?
– Ah, di mattina devo passare da una clinica. Poi di pomeriggio ho studio. Tu?
– Ora ho udienza.
Facemmo un po’ di strada assieme e poi io proseguii, sempre a piedi. Mi toccava camminare per almeno un’altra mezzora ma trovare parcheggio vicino a quella clinica era impossibile. La giornata comunque era bella.
Quella passeggiata riuscii a svuotarmi un po’ la testa ma a un certo punto finii per programmarmi possibili viaggi estivi. Quando arrivai, mi sorpresi a sperare di incontrare quell’uomo del bar, quello che sembrava un bambino. Immaginai che potesse avere il cheratocono e che … Niente! Scacciai quei pensieri e salutai la signora in segreteria.
Fu una mattinata noiosa, non venne nessun patito di dolci con problemi di vista e io me ne rimasi sempre appollaiata su una sedia davanti la scrivania del dottore, chiedendomi per tutto il tempo a cosa gli servisse la mia consulenza.
Alla fine mi pagò, quindi smisi di chiedermelo. Da lì, andai allo studio, mangiai il pranzo che mi ero portata da casa e mi addormentai sul lettino. Ma mi svegliai col mal di testa. Avevo dormito troppo. Comunque, anche quel pomeriggio passò in fretta. Solo che adesso mi toccava farmi tutta quella strada a piedi e faceva un po’ freddo ora che non c’era il sole. Anche per riscaldarmi, affrettai da subito il passo ma arrivai a casa stanca. Mi lavai e provai comunque ad allenarmi. Srotolai il tappetino, iniziai stirandomi la schiena e riscaldandomi i polsi. Quindi, feci qualche saluto al sole. Ferma in piedi, sentii tutta la voglia di lasciarmi andare, di riposare e di sdraiarmi senza fare più nulla. Era solo stanchezza o era anche pigrizia? Sarebbe stato giusto farmi forza o non farmi violenza? Alla fine continuai ad allenarmi, soprattutto stirandomi, e ammisi che mi ci voleva proprio. Non ero sudata e preferii cenare prima di farmi la doccia. Mi preparai da mangiare e, finito tutto, mi venne voglia di dolce, magari di quella setteveli in monoporzione.
Sospirai, mi alzai da tavola e misi tutto nella lavastoviglie. Ora avevo voglia di farmi un bagno. Da quanto non ne facevo uno? Avevo comprato quella vasca, mi era costata un casino di soldi ma non avevo fatto altro che docce, perché mi sembrava di sprecare acqua, altrimenti. Il mio problema non erano le bollette ma proprio l’idea che si buttasse tutta quell’acqua. Eppure ne sentivo il bisogno, le mie membra lo sentivano. Alla fine, come sempre, mi feci soltanto una rapida doccia. Poi mi lavai i denti e infine mi sdraiai sul letto col portatile sulle gambe con l’idea di vedere qualcosa. Ma mi tornarono in mente i discorsi di Alberta, lei che si chiedeva perché le piacesse soffocarsi. Che male c’era? Forse era accogliere anche dentro la propria bocca tutto l’uomo. D’altronde non è proprio con l’oralità che iniziamo a conoscerci? Poi, esistono uomini cui non piaccia? Dai! E, se anch’io dovessi incontrarne uno, me ne fregherei. Me ne fregherei di quanto glielo sporcherei con la saliva, di cosa potrebbe pensare di me o non so cos’altro.
Avevo voglia di qualcuno, in verità. Avevo voglia di fare l’amore, di sentire dolore, di mordere. Avevo voglia di farmi male anche da sola e pensai a cosa potessi usare…
Alla fine, feci soltanto partire un episodio su Netflix e sospirai per la seconda volta nella stessa serata.
– Mi ascolti o stai cercando ancora quello di ieri?
– Tutte e due!
– E c’è?
– Sì, mio Dio. Non l’avevo notato. Sta venendo verso… Non ti girare!
Alberta ce le aveva, queste cose. Ma non mi ci sarei mai abituata. Si alzò di scatto, sorrise all’uomo della monoporzione e gli cedette il suo posto. Stavo quasi per alzarmi di scatto pure io ma lui sembrava più in imbarazzo di me e questo, in qualche modo, mi rassicurò. Si sedette, mi tese la mano. Mi presentai ma lui non disse nulla. Questa mattina non aveva la setteveli con sé, forse aveva semplicemente chiesto il servizio al tavolo. Mi guardava, sorrideva, arrossiva ma non diceva nulla. Però riusciva a non abbassare lo sguardo.
– Allora, non me lo dici come ti chiami?
Adesso sì, che distolse gli occhi. E si rabbuiò. Provai come un senso di delusione.
– Come preferisci. – dissi fredda.
Lui restava zitto e io stavo pensando di andarmene. Dopo un po’ venne la cameriera con alcuni cestini di fragoline su un piattino. Lui lo mise in mezzo e con un gesto della mano mi invitò a prenderne uno. Allora capii che forse era muto. Gli sorrisi rassicurata e accettai. Gli dissi cosa facevo nella vita, che ero oculista e lui, mostrandomi una valigetta che non avevo notata, mi fece capire che era un violinista.
– Che bello! – esclamai.
Non fu una conversazione tanto facile, perché dovetti parlare da sola, però mi ascoltava davvero e questa era ormai diventata una novità, per me. Ci salutammo comunque dopo poco e io iniziai la mia solita giornata, che fu pressoché identica alla precedente – se non per la mattinata trascorsa a lavorare in ospedale. Anche la sera fu simile alla precedente. Mi sentii meno stanca ma non mi concessi nessun bagno caldo e nemmeno altro, anche se ne avevo sempre più voglia. Criticavo tanto Alberta per i suoi dubbi ma intanto lei si lasciava andare. Io non riuscivo nemmeno a toccarmi, ormai.
Il giorno dopo, almeno in qualcosa, fu diverso. Parlai ancora con quell’uomo silenzioso. Ero tentata di prendere un foglio e una penna, però mi sembrava di risultare scortese. Ma prima di salutarci fu lui a farlo. Tirò fuori una penna e su un tovagliolo del bar scrisse “18:00”.
– Un orario?
Annuì contento e poi scrisse “7, 6”.
– Il sette giugno?
Scosse il capo un po’ afflitto. E riprovo “7, 3”, cerchiò più volte il 3 e indicò verso giù con la mano destra.
– Ah, ci sono. 3 è mercoledì?
Annuì felice e puntò la penna nuovamente sul 7 e sul 6.
– Sabato?
Era sabato.
– Sabato alle 18?
Giusto!
– Dove?
Sempre in quel bar.
Accettai sorridente e da un lato mi sembrava mancasse un’eternità da lì a Sabato, dall’altro ne ero contenta. Quella sera, come dicevo, fu un minimo diversa. Non mi feci nessun bagno e altre cose ma, invece di guardare roba su Netflix, misi su un vecchio album dei Roxy Music e ballai per tutta la sua durata, anche quando la musica non sembrava poi così ballabile. E mi coricai sorridente.
Giovedì e venerdì il tizio non si fece vedere al bar, mentre in quelle sere tornai a ballare e a leggere. Sabato non lavoro, così non andai nemmeno io a fare colazione. Restai tutto il giorno in casa, se non per fare la spesa. Le mie voglie erano sempre più strane e pressanti ma resistetti sperando un po’ in quella sera.
L’uomo silenzioso mi aspettava già fuori dal bar, sempre col suo violino. Dopo che ci salutammo, feci per entrare nel locale ma lui mi prese gentilmente per mano e mi condusse per qualche metro a piedi. Dopo poco, arrivammo a un piccolo teatro. Lui bussò, gli aprì una donna alta, bella e sulla cinquantina.
– Dante!
Gli disse lei sorpresa ma sorridente. Ci fece entrare e Dante – finalmente sapevo il suo nome – mi portò verso il palco del teatro. Mi fece accomodare in prima fila, lui salì sulla pedana di fronte a me e con gesti spontanei, liberi, estrasse il violino dalla sua custodia. Lo accordò un secondo e iniziò a suonare. Dapprima era una melodia leggera e con poche note, poi, progressivamente, la sua musica mi rapì sempre più. Era come se bussasse alla mia testa. Per un attimo resistetti ma poi dovetti cedere. Non capii come fu possibile ma cominciai a vedere immagini. Prima sfocate, come lontane, poi sempre più nitide. Era Dante, eravamo io e lui, seduti al bar e mi parlava. In quelle immagini poteva parlare.
– Non lo so nemmeno io com’è che mi sono ridotto così, a non poter dire nemmeno più una parola. Non posso nemmeno scriverla. Solo i numeri.
– Ma ora sì, ora puoi… cos’è questo?
– Con la musica riesco, è vero.
– Come fai?!
– Non saprei.
– Però è bello.
Mi sorrise e poi disse ancora:
– Più tardi ti va di cenare insieme? Pensavo a qualcosa di semplice, una trattoria. Però dovrò di nuovo tacere.
– Sì che mi va. E non preoccuparti,
– In tutti questi giorni avevo così tanto da dirti… mentre ora che posso,
– Penso sia normale.
Mi sorrise ancora. Non disse altro ma cambiò quello che ci circondava e il tempo della musica. Ora non eravamo più seduti al bar ma su un prato immenso con delle montagne in lontananza e il Sole stava tramontando. Io ero libera di muovermi, mentre lui suonava anche in quella visione. Aveva gli occhi chiusi e io annusai un fiore e mi distesi sull’erba. Restai così, fin quando la musica cessò e lo vidi sorridermi sempre in quel modo timido, mentre io ero commossa per quanto era appena successo. Istintivamente, applaudii e lui rise.
Mi portò in una trattoria sempre lì vicino al teatro. Era piccola ma molto carina e mangiammo e bevemmo bene. Dopo, mi accompagnò a casa.
– Ti va di salire?
Annuì sorridendo. Aprii il portone del mio palazzo, lo feci entrare e non presi l’ascensore ma le scale. Sentii il suo sguardo addosso, sulle mie gambe e speravo che allungasse una mano per vedere quanto fossi bagnata. Salii lentamente e per poco non mi alzai il vestito.
In casa, gli offrii dell’altro vino, bevemmo e lui suonò. Eravamo lì, nel mio salotto, anche nella sua musica.
– Sei bellissima.
– Grazie…
– Non riesco a dirti altro, nemmeno così. Io…
Non lo lasciai finire e lo baciai. La musica si interruppe e ci guardammo. Lui ora era in piedi e io sul divano. Venne verso di me e ci baciammo anche al di là delle sue note. Ci baciammo a lungo, poi mi tolse il reggiseno e mi baciò fino al petto. Scese ancora con la lingua, mi tolse gli slip e leccò ancora, e ancora. Poi mi fece girare. Ero in ginocchio sul divano e lui continuava a leccarmi, affondò con la lingua, mentre mi prese la mano destra e la portò sul mio ventre. Iniziai a toccarmi mentre lui affondava la lingua ovunque poteva. Non ce la feci più, lo tirai su e presi il suo posto. Gli sbottonai frenetica i pantaloni e, di colpo, mi chiesi se potesse dargli fastidio la mia saliva. Mi ricordai anche di quando una volta ero con Arrigo e mi stavo toccando mentre lo avevo in bocca. Volevo mettermi qualcosa dentro, giocare, metterlo dentro anche a lui ma mi bastò toccarmi per fargli dire cose che non volevo pensare, che in quel momento non dovevo pensare. Ma lo stavo facendo, pensavo troppo e, invece di mettermelo tutto in gola, come fino a un momento prima speravo di riuscire a fare, ora sembravo un’imbranata. Dante non sembrava nemmeno godere, sembrava più soffrire. Mi accarezzava la testa e forse si trattenne dal spingermela.
– Lo facciamo?
Gli dissi e lui annuì. Lo portai sul mio letto, si sdraiò su di me e, come speravo, mi fece male. Era gentile ma si vedeva che piaceva anche a lui farmi un po’ male. Per fortuna, riuscii a venire, quello mi riuscii. Lui venne dopo, stringendomi forte con le mani. E io sognavo che non avesse il preservativo.
Non dormimmo insieme. Se ne andò salutandomi con un bacio e scrivendo su un foglio “7, 7, 10:00”.
– Domani alle dieci?
Sì.
– Sempre al bar?
Sì.
Annuii contenta e lo accompagnai alla porta. Tornai a letto. Non faceva freddo ma avevo voglia di un camino, di un fuoco accanto.
L’indomani, a colazione, mangiammo tantissimo. Poi passeggiammo. Stavamo in silenzio ma era piacevole. Volevo prendergli la mano ma non riuscivo a fare nemmeno questo. Fu lui a farlo. Mi odiai. Non ero in grado di farmi un bagno, non sapevo più masturbarmi liberamente, non sapevo nemmeno prendergli la mano, figuriamoci succhiarglielo come davvero desideravo! Camminando, arrivammo sul mare. Ci abbracciammo e ci baciammo. Lo sentii duro contro il mio corpo e lo guardai. Lui sorrise dispettoso. Gli morsi le labbra e lo invitai a pranzo da me. Dannazione quanto lo volevo!
Cucinammo insieme, mangiammo, ridemmo e ci amammo. Ma io non ero riuscita nemmeno a baciarglielo eppure mi piaceva così tanto. Tutto mi piaceva di lui. Ci appisolammo sul mio letto. Restammo assieme anche a cena, ordinammo della focaccia e iniziammo un film. Lui quel giorno non aveva il violino ma mi parlava con gli occhi. Io pensavo troppo. Mi vergognavo a toccarmi, quando era stato lui a portarmi la mano in mezzo alle gambe. Aveva affondato la lingua anche nel mio sedere e io mi preoccupavo che potesse fargli schifo la mia saliva. Pensavo troppo. Però, se fossimo stati nella sua musica, forse… no! Basta rimuginare. Me ne fregai del film, me ne fregai di quanto ce lo avesse grande – ci sarei riuscita comunque. Mi inginocchiai davanti a lui, gli sbottonai i pantaloni. Mi sembrava impossibile mettermelo tutto in bocca. Ma finalmente mi sentivo libera di affogarmi, di sporcarlo tutto con la mia saliva e, inizialmente non capii come, riuscii a farmelo arrivare fino in gola. Lacrimai ma mi piacque da matti. Continuai in quel modo, lui mi teneva la testa e mi piaceva anche quello. Poi, a un tratto lo sentii dire:
– Mio Dio, è bellissimo!
Ma eravamo nella sua musica? O aveva parlato davvero? Non è che per tutto quel tempo mi aveva preso in giro? Eppure, quello che avevo visto e sentito mentre suonava era autentico, lo sentivo. Forse, anche lui si stava lasciando andare.
Lo guardai e aveva anche lui un’espressione stupita.
Nel frattempo io tossivo, lo inondavo di saliva. Stavo pure sporcando a terra. Avevo una voglia matta di farlo ma volevo troppo che mi venisse in bocca. Continuai e, anzi, iniziai a toccarmi. Infine, parlò ancora e disse:
– Sto venendo,
Mi fermò con le mani e venne. Io non respiravo e mi piaceva, mi piaceva così tanto, e venni anch’io. Gli saltai addosso, ci baciammo e ci abbracciammo. Dopo un po’, lo notai spaventato.
– Cos’hai?
Non riusciva più a parlare.
– Prima ce l’hai fatta però.
Mi sorrise.
– In qualche modo mi lusinga.
Lo rividi dopo due giorni. Anche per messaggi poteva solo mandarmi numeri. Riuscimmo a concordare che 1 stava per sì e 0 per no. Lo invitai a cena di mercoledì, a casa mia. Quel pomeriggio mi ero fatta un bagno, caldo, caldissimo.
Non preparai nulla di particolare ma fu bello e lui mi portò dei fiori. Quella sera aveva il violino. Suonò e ci trovammo sempre tra i monti ma sotto un cielo stellato e incantevole.
Poi, sul mio letto, mentre era dentro di me:
– Sei così bella,
– Hai parlato di nuovo.
Sorrise come rincuorato da qualcosa e fece ancora:
– È merito tuo.
– Mio?
– Sì, secondo me, hai il potere di rendermi libero.
– Allora è un potere reciproco.
Ci conoscevamo da pochissimo ma avevamo fatto l’amore già dalla prima volta. Era mai possibile? Comunque, intuii che gli riusciva di parlare solo quando stavamo insieme. Questo rendeva le cose ancora più strane ma anche affascinanti. Lo rendevo libero? Forse perché io mi stavo sempre più lasciando andare?
Un giorno – era venerdì – volli restare da sola, a fare cose da sola e mi riuscii, fu bello. Sabato lo invitai di nuovo a cena da me. Questa volta preparai qualcosa di più elaborato. Feci pure il dolce. Dante arrivò alle sette di sera, sempre puntuale. Portò del vino. Lo aprii ma non lo versai subito, volevo che prendesse aria. Tornai a cucinare.
– Tu intanto sentiti libero. Puoi pure accendere la tv.
Ma non lo fece, non accese la tv. Mi abbracciò, invece. Mi baciò il collo e poi fin sotto.
– Ma sto cucinando…
– E chi te lo impedisce? – farfugliò.
Riuscii, nonostante la sua dannata lingua, a finire il risotto.
– Basta. Ora fammelo mettere nei piatti. Siediti, dai.
Mi baciò sulle labbra tutto soddisfatto e si sedette. Mi sedetti anch’io, feci per versare il vino ma mi fermai. Quanto ero davvero libera? Mi alzai, mi tolsi le mutandine, presi un calice e, tenendomi il vestito con una mano, vi feci dentro la pipì.
Cosa ne pensi?

Fabio Martinez è scrittore (ha pubblicato tre libri e Il Graal ritrovato, edito da Tipheret, è il suo ultimo romanzo), sceneggiatore e storyteller. Per narrare (anche impresa), ha inventato un nuovo format (#dialoghidimpresa): dialoghi autonomi, per lo più brevi e che non si esauriscono svolgendo la loro funzione pubblicitaria, restando capaci di durare nel tempo e nello spazio. Possono essere tra due o più persone, tra un essere umano e un animale, un robot, il vento o qualunque altro interlocutore immaginabile. Possono raccontare e parlare di tutto anche dello Zen. D’altronde, il nostro modo di pensare, di ragionare non è un dialogare con noi stessi? Tutta la nostra realtà non è forse un dialogo costante?