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L’estate degli altri

L’estate degli altri

Dopo che hai visto il ragazzo in costume da bagno uscire e sedersi sulla sedia di plastica; dopo che la ragazza l’ha raggiunto e si è inginocchiata di fronte a lui; dopo che lui l’ha coperta con un asciugamano, lo dici: Ci sono due che stanno facendo sesso sul balcone di fronte.

Ava si muove nel letto. Non risponde, fa solo un verso – mh? – che pare una domanda, o forse è un accenno di frase in mezzo al sonno.

Un pompino, dici. Sul balcone qui di fronte.
Le dai le spalle, ma capisci che si sta coprendo meglio con il lenzuolo.
L’aria condizionata è spenta?, ti chiede. La voce le gratta nella gola.
Al minimo, dici.
Si può spegnere? Puoi spegnere, per favore?
È al minimo, ripeti. Se hai fame poi possiamo uscire. Anche più tardi.

Ti volti un attimo, in tempo per vedere la sua gamba che si contrae con uno scatto. Al buio, sembra che un piccolo animale si sia infilato dentro il letto.

Torni a guardare fuori.

La ragazza finisce quello che sta facendo. Riemerge da sotto l’asciugamano. Ride e bacia il ragazzo. Quando rientra, ne indovini i movimenti seguendo l’accendersi delle luci: quella della stanza, poi, qualche secondo dopo, quella del bagno.

Il ragazzo poggia i piedi sulla ringhiera. Da sotto la sedia prende un pacchetto di sigarette, ne accende una. Fuma lento. Ti chiedi se dovresti farlo anche tu. Sul davanzale, nel bicchiere di plastica riempito a metà di sabbia, ci sono già quattro mozziconi.

Se lo facessi, ti chiedi, sarebbe una specie di messaggio, un modo per dirgli che sei stato a guardare? E lui cosa vedrebbe? Una brace che si illumina dietro un vetro chiuso e tu, lì, seduto di fronte alla finestra? O non riuscirebbe a distinguere niente?

Il ragazzo schiaccia la cicca sul pavimento e si alza. 

In spiaggia, la mattina, Ava era arrivata fino alla battigia, aveva fatto due passi dentro l’acqua e si era fermata. Tornando indietro, i ragazzi dell’ombrellone accanto l’avevano guardata; si erano detti qualcosa e avevano riso. Sapevi cosa c’era dietro quegli sguardi e sotto il sole il corpo di Ava ti era sembrato ancora più pallido e spigoloso di come ti era apparso la sera prima, quando avevate fatto l’amore. Sul letto dell’albergo, le avevi passato un dito lungo le gambe, soffermandoti sulle ginocchia e sulle ossa sporgenti del bacino e delle costole. Ti aveva lasciato fare; l’avevi sentita irrigidirsi solo quando le avevi stretto la mano, provando a spingere il pollice verso il polso.

Chiami Ava un paio di volte, stupendoti più del suono della tua voce dentro quello spazio che del fatto che dorma già così profondamente. Adesso è buio davvero e lo è ancora di più in quella zona sul retro dell’albergo, sopra il parcheggio, su cui si affaccia la vostra camera.

Sulla facciata dell’hotel di fronte ci sono finestre aperte, costumi e asciugamani ad asciugare sui terrazzini: ne intuisci le ombre che si muovono nella brezza leggera. Dalla strada che corre alla tua sinistra, parallela al viale principale, senti arrivare un miscuglio confuso di voci, di grida, di musica che esce dalle porte aperte dei locali – il suono dell’estate degli altri.

Quando si era stesa sull’asciugamano, avevi raccontato ad Ava che i tuoi genitori, quando eri piccolo, te lo facevano fare sempre: prendere un po’ di sabbia da ognuna delle località di mare in cui soggiornavate. A casa la sistemavate in piccoli vasetti di vetro, a cui appiccicavi un’etichetta con il nome della spiaggia in cui era stata raccolta.

Ava aveva sorriso. Facciamolo anche qui, ti aveva detto.

Non avevi trovato niente di meglio, allora avevi preso il bicchiere di plastica vuoto della birra. Una manciata a testa, ne avevate riempito metà.

Avevi iniziato a raccontarle altro, sulle tue vacanze di bambino, stando attento a non dare l’impressione di voler colmare i vuoti, di voler parlare per forza. Ricordavi quello che ti aveva detto: I silenzi c’erano anche prima.

Avevi soppesato le parole, le pause. Se ne era accorta: aveva iniziato ad annuire soltanto, e fare quella cosa di non trattenere lo sguardo fisso su un punto per più di qualche secondo.

Possiamo andare?, ti aveva chiesto poco dopo.
È ancora pomeriggio, le avevi detto.
L’idea di venire al mare è stata tua. Io vado.

Lungo la strada ti aveva chiesto la maglietta. Camminava con i palmi delle mani stretti sotto le ascelle, la t-shirt addosso. La gente che vi passava di fianco, in costume da bagno, non capiva come potesse tremare.

Guardi l’ora. Troppo tardi per uscire. Forse potresti scendere a prendere qualcosa da mangiare, ma non vuoi lasciarla sola. Ti avvicini al letto. I vestiti di Ava sono a terra. Sul comodino, i blister sporgono come lingue dalle loro confezioni. A pancia in giù, Ava tiene le braccia nascoste sotto il cuscino. Pensi che sia meglio così, e un attimo dopo che dovresti strapparle il cuscino da sotto la testa, afferrarla per la nuca, costringerla a guardare. Dirle di iniziare a spiegare. Invece la baci sulla tempia. Ha i capelli che sanno di salsedine e di fumo. Ma anche il tuo è un bacio sporco: mentre glielo dai, pensi che l’amore non dovrebbe avere niente a che fare con il salvare qualcuno che non vuole essere salvato.

Sei ancora alla finestra quando nella camera di fronte si riaccende la luce. Aspetti di vedere se il ragazzo o la ragazza usciranno di nuovo sul balcone, ma non succede. Apri la finestra. I rumori si fanno più forti: Ava forse lo sente, si muove nel letto.

Prendi i mozziconi che hai infilato nel bicchiere pieno di sabbia – quanti sono adesso? Otto? Dieci? – e li lanci nel buio, fino a quando non ne rimangono due. Ti siedi e cominci a picchiettare sull’esterno del bicchiere. Colpi leggeri con l’indice – tk, tk, tk – che smuovono la sabbia poco a poco. Provi a capire, di quei due mozziconi superstiti, quale cadrà per primo, o se cadranno insieme.

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