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Il mondo era un nastro

Il mondo era un nastro

Il mondo è un nastro lucente e liscio che i miei pattini percorrono senza difficoltà partendo dalla cima della strada di casa mia – che in realtà è una traversa – fino ad arrivare al cancello e poi di nuovo su per lanciarmi di nuovo, in un continuo saliscendi che non mi fa sentire l’odore di asfalto posato da poco, il primo maggio del 1980, mentre mia sorella maggiore ascolta alla radio Woman in love di Barbra Streisand e io undicenne mi chiedo perché quegli occhi languidi – non sarebbe meglio se provasse anche lei a pattinare, a scivolare senza pensieri nell’aria senza peso.

Il 1980 fu l’anno della caduta del mio settimo fratello.

Nella memoria di mia madre ogni anno era legato a un episodio, a volte due o tre. Mia madre ricordava data e ora di nascita dei suoi dieci figli, e quelli delle zie e degli zii che non erano meno, i numeri di telefono delle sue sorelle e delle persone amiche anche oltreoceano – ogni sera a cena mio padre le chiedeva il numero di un suo amico, lei rispondeva mentre io mi chiedevo perché mio padre non lo memorizzasse.

Ci furono l’anno dei miei svenimenti a scuola e quello della partenza della sua adorata amica Josephina che se ne tornava in Venezuela dopo trent’anni, quello delle Scissure, una spiaggia rocciosa dove morirono due amici milanesi dei miei fratelli maggiori che avevano rischiato la vita nel tentativo di salvarli, ed erano tornati a casa coi segni della morte sfiorata – ci volle un intero pomeriggio per pulire e medicare le ferite causate dagli scogli, un’intera vita per guarire quelle invisibili. Ci fu l’anno della laurea del mio terzo fratello, preceduta da due annunci smentiti la mattina stessa del giorno previsto per la discussione della tesi, e l’anno che mia sorella maggiore rischiò di rimanere stecchita tagliando dei fili della corrente elettrica per fare un dispetto al mio ultimo fratello, detto il piccolo, che le impediva di vedere il suo programma preferito. Ci fu l’anno della morte di mio nonno materno, che nel suo letto d’ospedale, battuto dalla malattia, alla notizia che gli studenti a Parigi si ribellavano e protestavano esultò con tali forza e passione che sembrò a mia madre e alle mie zie che ci potesse essere qualche speranza – ma era solo una battaglia, la guerra era già persa. Ci fu l’anno che cinque o sei di noi rischiammo di rimanere schiacciati sotto una trave che all’improvviso si staccò dal soffitto del portico – pochi secondi prima ci eravamo alzati da tavola, guardavamo terrorizzati i pezzi di muro venuti giù, ci ha mai amato di più che in quel momento, mia madre? Ci fu l’anno che mia sorella minore sparì mentre eravamo in spiaggia e mia madre vide galleggiare in lontananza qualcosa che le sembrò il suo costume e quasi morì all’idea, invece era solo un secchiello perso da qualche altro bambino e mia sorella – da allora soprannominata la fuggitiva – se ne stava al bar della pineta poco distante a mangiare patatine e bere coca cola in compagnia di una suora.

Ma la prima cosa che mia madre rivide nella sua mente un pomeriggio di molti anni dopo quando il suo cuore si fermò – e continuò a fare finta di battere altri due anni – mentre al telefono le veniva detto che non avrebbe mai più rivisto sua nipote, la prima cosa fu mio fratello caduto da un’altezza di più di quattro metri in un pomeriggio della primavera del 1980.  Pensò senza volerlo, mia madre, mentre il sorriso scompariva per sempre dal suo viso – ci sarebbero state ancora gioie, per lei, ma mai più felicità – pensò al tonfo sentito quel giorno, alla corsa verso il corpo steso e alla paura che bloccava i muscoli, alla sensazione di star guardando un film quando mio fratello infine si rialzò tranquillamente dicendo che non si era fatto niente sotto gli sguardi increduli di piccoli e grandi. Pensò, mia madre, che qualcuno stava presentando il conto per tutte le grazie ricevute negli anni, e che quel conto era davvero molto accurato e incontenibilmente crudele.

Il mondo era un nastro, e l’aria senza peso.

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