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L’alternativa alla cultura dello stress e della paura in azienda

L’alternativa alla cultura dello stress e della paura in azienda

L'alternativa alla cultura dello stress e della paura in azienda

“O distruggiamo il capitalismo o lui annienterà noi”, sostiene il sociologo svizzero Jean Ziegler.

Parlo spesso della necessità di cambiare le modalità di relazionarsi in azienda; altrettanto spesso le lettrici e i lettori mi scrivono, interrogandosi su come sia possibile attuare un cambiamento di paradigma in un mondo in cui le aziende sembrano avere poco o zero interesse per le persone. E mi raccontano il loro quotidiano da fine ‘800, che fa venire i brividi.

Di solito rispondo che sono fiducioso per due ragioni: la prima è che le aziende devono fare i conti con l’arrivo sul mondo del lavoro di nuove generazioni che hanno dei valori diversi rispetto a quelle precedenti, e che mettono l’accento sull’importanza del proprio benessere psico-fisico.

La seconda ragione è che i consumatori sono sempre meno passivi, e anzi sono consum-attori, protagonisti della vita del prodotto e dei servizi che decidono di acquistare; sono finiti i tempi in cui le aziende potevano nascondersi dietro generali dichiarazioni di impegno: oggi ognuno di noi si sente in diritto di chieder loro le prove di quell’impegno, e riteniamo che le aziende abbiano l’obbligo morale di contribuire al benessere della comunità in cui operano.

C’è un terzo aspetto, però, di cui non parlo volentieri, perché ha una dimensione maggiormente politica e presta quindi il fianco a ogni tipo di incomprensione: mi riferisco al fatto che il cambiamento è possibile a condizione che il nostro sistema capitalista cambi in maniera profonda.

Le criticità del sistema economico attuale

Capiamoci: dare un colpo deciso al sistema capitalista non vuol dire diventare comunisti, con buona pace di chi pensa che il mondo sia solo bianco o nero.

Il sistema capitalista funziona in quanto è in grado di migliorare la vita delle persone, e lo vediamo da come la Cina ha saputo diminuire drasticamente la povertà, aprendosi al libero mercato (o a qualcosa che ci assomiglia).

Tuttavia l’abuso del sistema capitalista ha portato alla maggior parte dei problemi sociali che stiamo vivendo in questo periodo storico. E, soprattutto, il capitalismo è all’origine dei cambiamenti climatici. Per questo va distrutto prima che lui distrugga noi: è in questo contesto che si inserisce la frase di Jean Ziegler, che è, tra l’altro, membro del comitato consultivo del Consiglio dei diritti umani dell’ONU.

“Il sistema capitalista ha effettivamente impressionanti capacità, dinamica e creatività”, riconosce il professore 85enne in un’intervista pubblicata dal domenicale svizzero SonntagsBlick. “Ma i grandi gruppi economici si sottraggono a ogni controllo: funzionano unicamente secondo il principio della massimizzazione dei profitti nel tempo più breve possibile, a qualunque costo umano».

Le storie che ci raccontiamo (per non cambiare)

L’idea di non poter cambiare il nostro sistema economico è una narrativa radicata e difficile da mettere in crisi. Invece dovremmo vederla per quello che è veramente: una storia che ci raccontiamo.
Per diversi motivi: perché è più facile; perché ci vuole una buona dose di impegno per cambiare; per alcuni, perché il sistema attuale li avvantaggia; perché manchiamo di creatività; perché conosciamo solo questo modo. E tante altre ragioni.

Ci sono molti studi teorici che cercano di dare delle risposte a questa crisi di valori che ormai è evidente a tutti, soprattutto ai lavoratori. Si cercano opzioni sostenibili, che spesso vengono diluite a slogan, e presi in prestito dai vari gruppi politici che pensano di poter far leva sul disagio delle persone per raccogliere consensi e quindi voti.

Una delle dottrine più interessanti è quella nata negli Stati Uniti in seno a gruppi di interesse che coltivano l’idea di un capitalismo consapevole: si tratta di liberare lo spirito positivo del fare business e di unirlo alla creatività imprenditoriale collettiva, con l’intento di affrontare le difficoltà socio-economiche che stiamo vivendo in questo particolare periodo storico (di cui il cambiamento climatico è l’espressione più allarmante).

I quattro principi del capitalismo consapevole

1. La buona causa (Higher Purpose)

Le imprese devono avere delle ragioni che vadano al di là del mero profitto: queste ragioni definiscono la buona causa, che deve perseguire obiettivi superiori. Da questo punto di vista, la sostenibilità economica è un risultato, ma non è lo scopo dell’azienda.

“Abbiamo bisogno dei globuli rossi nel sangue per vivere (così come le aziende hanno bisogno dei soldi per vivere), ma lo scopo ultimo della vita va molto al di là del produrre globuli rossi (così come lo scopo di un business va al di là della semplice produzione di profitti).”
– Prof. R. Edward Freedman –

2. L’integrazione d’interessi (Stakeholders orientation)

Le aziende vivono in un ecosistema delicato, composto da collaboratori, clienti, fornitori, investitori, governi, risorse naturali.
Il business deve consapevolmente creare valore per tutta la comunità, non solo per gli azionisti.
Bisogna motivare tutti gli stakeholder a perseguire gli interessi della comunità e non quelli del singolo, cercando di generare valore condiviso, persino per i concorrenti. Questo perché tutte, ma proprio tutte, le parti coinvolte compongono l’ecosistema.

3. La Leadership consapevole (Conscious Leadership)

Come gli altri stakeholder dell’ecosistema, anche i leader delle aziende devono mettersi al servizio delle persone piuttosto che inseguire potere e ricchezza personali.
Devono saper ispirare una visione condivisa di benessere, facendo in modo che tutti nell’azienda abbiano il focus sulla buona causa e che lavorino in un’ottica di fiducia e di cura reciproche.

4. Una nuova cultura consapevole (Conscious Culture)

Alla base del capitalismo consapevole c’è una cultura aziendale (ma anche economica) fatta di fiducia, responsabilità, trasparenza, integrità, lealtà, uguaglianza e miglioramento personale.
Questi principi agiscono come una forza energizzante e unificante per tutti gli stakeholder: in essa, le persone si riconoscono e possono trovare un’alternativa alla cultura della paura e dello stress tipica delle culture aziendale disfunzionali.

Il peso delle multinazionali

Personalmente, trovo l’approccio utile. Tuttavia, vivo questa versione illuminata del capitalismo come un tentativo maldestro di non affrontare la questione di fondo: tipicamente, come portare le aziende ad applicare questo livello di consapevolezza.

C’è un aspetto critico che non può essere scopato sotto il tappeto: per una piccola parte della popolazione, il nostro sistema socio-economico attuale funziona, in quanto permette loro di vivere in una ricchezza che, probabilmente, non avrebbero se cambiassero le regole del gioco.

Le Fortune 500, ovvero le 500 più grandi multinazionali del mondo, hanno il controllo del 52,8% del reddito nazionale lordo della Terra. Come fa notare Jean Ziegler “hanno un potere che nessun re ha mai avuto su questo pianeta”.

Per lo stesso motivo non serve a molto attaccare i governi e pretendere dai nostri politici di trovare delle soluzioni, se non abbiamo messo in conto l’inevitabile e necessaria revisione del concetto stesso di capitalismo. Capitalismo che suona come un dottrina economica ma che si traduce concretamente nel nostro modo, reale e quotidiano, di vivere.

La scelta tra evoluzione e rivoluzione

Un modello, il nostro, che continua a ispirare quelle popolazioni che non hanno ancora preso il treno dello sviluppo economico: tutti i paesi del cosiddetto Terzo Mondo perseguono l’obiettivo di raggiungere lo stesso livello di vita dei Paesi industrializzati. Ora, guardiamo in faccia la verità: questo sviluppo non è semplicemente possibile.
Applicare lo stesso modello economico basato sul consumismo e sullo sfruttamento delle risorse naturali porterà inevitabilmente all’esaurimento del Pianeta e quindi a un rischio concreto per tutto l’ecosistema, umani compresi.

C’è chi pensa che questa enorme pressione ancora a venire creerà una tale crisi sociale, economica e politica che dalle ceneri di scontri e crisi nascerà un nuovo paradigma mondiale, questa volta più sostenibile e orientato al bene comune. Ma ne beneficeranno solo i sopravvissuti (ammesso che ce ne siano).

“La storia insegna che le classi dominanti – oggi l’oligarchia finanziaria internazionale – non rinunciano mai volontariamente ai loro privilegi: si difendono a sangue”, puntualizza Jean Ziegler. “Se guardo alla storia mi sembra impossibile che oggi succeda qualcosa di diverso”.

Tutti pronti per una sanguinosa rivoluzione, quindi?
L’opzione evolutiva c’è, ma dobbiamo prendere l’iniziativa, noi per primi.

Divide et Impera

Siamo ancora in tempo a evitare l’ecatombe. Purtroppo il tempo stringe e noi esseri umani abbiamo questa capacità unica di organizzarci sempre in fazioni contrapposte e bellicose.

Siamo fondamentalmente animali tribali e facciamo fatica a sentirci uniti come un’unica razza.
Ci riusciamo solo nei film di fantascienza, quando gli alieni ci invadono per distruggerci… e allora, per il tempo di una battaglia epica, mettiamo da parte le nostre differenze e difendiamo quella che consideriamo la nostra casa comune.

Nella realtà, quando persone come Greta Thunberg si impegnano a far capire all’opinione pubblica che siamo in una situazione di emergenza, c’è subito chi ci vede dietro il complotto, gli interessi dei poteri occulti, e si organizzano di conseguenza per discreditare non solo lei ma anche tutte le sue azioni.

Temo che si debba cominciare da qui, ovvero dal riconoscere che ci sono persone che demonizzano movimenti come quello iniziato da Greta Thunberg, facendo così il gioco degli stessi “poteri occulti” che criticano e temono: perché è impossibile non essere d’accordo sul fatto che bisogna abbattere l’utilizzo delle fonti energetiche non rinnovabili. Quindi: perché affermare che è un complotto?

I politici che si oppongono a queste azioni sono sempre al servizio delle grandi aziende che non sono pronte a rinunciare ai loro profitti, nonostante abbiano avute decenni per prepararsi. Il fatto che il petrolio sarebbe terminato, prima o poi, lo sapevamo già negli anni 70.

Valore e valenza del profitto

Ed è qui che c’è l’intersezione tra la questione dell’emergenza climatica e quella del cambiamento di paradigma a livello di condizioni lavorative.

La parola chiave è profitto: in un sistema, quello attuale, esso è massimizzato e concentrato nelle mani di pochi; nel sistema verso il quale dobbiamo andare, esso è ridistribuito su tutta la società e, soprattutto, non è lo scopo ultimo, ma solo un mezzo per il fine più nobile: quello di garantire benessere a ogni essere umano sulla Terra.

Noi che siamo relativamente in basso nella gerarchia decisionale abbiamo però un potere importante: i numeri sono dalla nostra parte. Le masse, chiamiamole così, sono le vittime del sistema ma anche il suo principale motore.

Sta a noi, nel nostro quotidiano, contribuire al cambiamento di paradigma in azienda. E ci sono diversi modi di farlo, a mio avviso:

  1. Sollevare le questioni etiche con colleghi e superiori, anche quando sono scomode: porsi le domande è il primo livello di difesa contro gli abusi.
  2. Rifiutarsi di lavorare per le aziende che massimizzano il profitto (lo so, più facile a dirsi che a farsi, quando hai un mutuo e una famiglia da mantenere; quindi vedi il punto 3).
  3. Rifiutarsi di acquistare prodotti e servizi delle aziende che massimizzano il profitto a scapito dell’ambiente e delle persone.
  4. Cercare di applicare il principio del bene comune anche nella nostra vita di tutti i giorni, e non solo con i famigliari, ma anche con le persone che sentiamo diverse e lontane.
  5. Crederci sempre: credere nel cambiamento che verrà e credere in noi stessi come parte importante di questo cambiamento.

Tutti per uno, uno per tutti

L’aspetto sensibile di questo discorso è che, sebbene si tratti di un apparente confronto tra parti, dobbiamo cercare noi per primi di pensare al bene comune. E nel bene comune ci sono anche quelle aziende e quelle modalità che combattiamo.

È uno dei motivi per cui, personalmente, ho sempre guardato con sospetto ai sindacati, che in teoria, sulla carta, dovrebbero avere un ruolo importante. Invece finiscono col diventare organizzazioni il cui scopo è quello di promuovere gli interessi di una sola classe, mentre dobbiamo ragionare in maniera “mescolata”: tutti dobbiamo collaborare per un reciproco vantaggio, padroni e operai, politici e cittadini, governi e aziende.

Sembra una visione rivoluzionaria della vita, eppure è comprensibile anche per chi è un sostenitore agguerrito del sistema economico attuale: in fondo, l’idea è sostituire il profitto di pochi con il profitto per tutti.

Il nocciolo della questione potrebbe proprio essere che il sistema capitalista in cui viviamo è imperfetto e non è implementato come invece dovrebbe. Alla fine, forse avere ragione Gilbert K. Chesterton, che diceva che “troppo capitalismo non significa troppi capitalisti, ma troppo pochi capitalisti”.

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