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Gli inciampi del lavoro agile

Gli inciampi del lavoro agile

Orgoglio nazionale: l’Italia è stato il primo Paese Europeo a disciplinare il “lavoro agile”, o “Smart Working”, e ha fatto da modello per le normative delle altre Nazioni e dell’Unione.
La norma chiarisce lo scopo – “incrementare la competitività e agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro” – l’esecuzione – “anche con forme di organizzazione per fasi, cicli ed obiettivi, senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro” – e l’organizzazione – “la prestazione viene eseguita in parte all’interno dei locali aziendali e in parte all’esterno senza una postazione fissa” -.
Inoltre, assicurata parità di trattamento retributivo, assicurativo, contributivo e di orario complessivo di lavoro, con i dipendenti in sede.

Fantastico.
Nell’immaginario collettivo, migliaia di dipendenti invadono pacificamente parchi e caffetterie con i propri laptop sotto il braccio, come un esercito di freelance tutelati.

Secondo l’Osservatorio sullo Smart Working del Politecnico di Milano, nel 2017 hanno adottato forme di lavoro agile il 36% delle grandi aziende e il 22% delle PMI, coinvolgendo circa 300mila dipendenti. Tra i vantaggi l’Osservatorio ha registrato un incremento della produttività intorno al 6%.
Ferrero, pioniera in Italia, nei primi sei mesi di sperimentazione, con soli 100 dipendenti coinvolti, ha rilevato che, su 12mila ore lavorate, ne sono state risparmiate 5mila di spostamenti.
Beneficio per le aziende, beneficio per i dipendenti, beneficio per l’ambiente e le comunità territoriali.

Numeri di tutto rispetto ma, a ben guardare, non esattamente una rivoluzione.
Nella quasi totalità dei casi, infatti, il lavoro è agile solo un giorno a settimana, generalmente infrasettimanale, che è un’agevolazione perché il dipendente risparmia il tempo di trasporto da e per l’azienda, ma sicuramente non gli consente di organizzare il lavoro diversamente da come avrebbe fatto in ufficio.

Perché?
Perché il cambiamento è stato solo parziale e non organizzato.
Perché lo Smart Working è visto come uno strumento di welfare e non un modello di governance aziendale.
Perché lo smart working non è praticabile per tutti i lavori, ma siccome è di moda (e gode di agevolazioni fiscali), provano ad adottarlo tutti dappertutto con distorsioni e adattamenti che il più delle volte lo snaturano: vedi la giornata di “autogestione” settimanale.

Il modello smart working presuppone che il dipendente sia consapevole di, e competente per, dover realizzare il lavoro “y”, entro un tempo stabilito e noto; che per farlo si interfacci (fisicamente o da remoto) con il collega che ha portato avanti il lavoro fino a “x” e con il collega che dovrà occuparsi di “z” e perciò è “bloccato” in attesa che lui completi “y”. A patto che faccia il suo lavoro bene, rispettando le scadenze e cooperando quando necessario, non importa in che orari lavori, per quanto tempo e dove. Ciò che conta è il risultato: nel senso che potrebbe anche impiegare meno tempo delle ore previste contrattualmente perché più efficiente.

Ciò presuppone che il dipendente lavori sempre in autonomia e nella sede per lui più consona e che possa organizzarsi i carichi di lavoro secondo le proprie esigenze (il c.d. work-life balance) purché entro i termini necessari a non intralciare i colleghi né l’efficienza complessiva del gruppo.

La supervisione del titolare o del manager avviene con le stesse modalità, generalmente attraverso una piattaforma di lavoro condivisa cui ha pieno e continuo accesso per poter monitorare e supportare l’avanzamento del lavoro.

Per realizzarlo a pieno occorrerebbe che tutta l’azienda, o almeno il comparto coinvolto, lavorassero in modalità smart.
La sede fisica dell’azienda sarebbe una struttura di appoggio dove potersi incontrare per riunioni, briefing e approfondimenti; o semplicemente per favorire la “socialità” tra colleghi, non nel senso di momenti ludici ma momenti di incontro professionale che facciano sentire ciascun dipendente parte di una realtà più ampia complessa e non un’isola dispersa nell’oceano.
Tutto senza postazioni fisse, ma spazi di lavoro interscambiabili secondo le esigenze e le composizioni dei team di progetto.

Per creare un modello organizzativo diffuso e concretamente efficace occorrono:

1. Obiettivi chiari. Non solo di fatturato e di lungo periodo, o almeno medio.
Invece, soprattutto tra le PMI, si naviga spesso a vista, si vive “alla giornata”, con obiettivi annuali, o al massimo biennali.
E tutti focalizzati sul fatturato, nel senso di incassi.
Non c’è quasi mai una strategia di crescita, un piano di sviluppo industriale, un progetto poliennale di espansione.
C’è la crisi (in realtà molte crisi susseguite prima che ci si potesse riprendere dalle precedenti), ma la verità è che i progetti non si facevano neanche prima del 2008, nemmeno quando tutto sembrava andare bene.
Altrimenti, forse, almeno una parte degli effetti delle crisi si sarebbe potuto arginare.
Così, diventa difficile organizzarsi, organizzare il lavoro e sviluppare le risorse coerentemente.

2. Trasparenza. Anche quando ci sono, quelli che ci sono, gli obiettivi spesso non vengono comunicati.
Il lavoratore sa cosa deve fare, non perché né cosa faranno gli altri.
È tutto diviso in compartimenti stagni, con pochissime informazioni circolanti, come se il dipendente fosse un competitor invece di un partner.

3. Definizione dei compiti. Nei reparti e comparti aziendali, tutti fanno tutto, senza specializzazioni. Il lavoro viene distribuito secondo carichi omogenei. A parità di contratto, parità di compiti.
Senza tenere conto delle competenze specifiche, delle preferenze e delle debolezze. Senza deleghe funzionali che consentirebbero di distribuire anche gli oneri di supporto e controllo.
L’unico referente è il titolare o il manager che deve gestire tutto e tutti contemporaneamente e perciò ha bisogno di concentrare tutto e tutti, almeno logisticamente.

4. Assunzione di responsabilità. Il lavoratore dipendente è deresponsabilizzato. Il suo contratto prevede soldi in cambio di tempo, non di risultati.
Questo non lo rende intoccabile (anzi, in assenza di parametri oggettivi la valutazione del rapporto fiduciario è totalmente arbitraria), ma gli impedisce di misurare se sta facendo un buon lavoro oppure no.

È meglio la velocità o la qualità?

Spesso non è chiaro: dipende dai periodi, dagli umori, dalle preferenze di chi decide.
E poi raramente il lavoratore ha meriti e riconoscimenti. Stesso contratto, stessa retribuzione.
Perché dovrebbe impegnarsi di più del collega che fa meno e percepisce la stessa retribuzione?
Perché dovrebbe prendere un’iniziativa più producente per l’azienda se non ne riceverebbe in cambio nemmeno una menzione?

5. Capacità di supervisione. Quanti “capi” la posseggono?
Il controllo attiene al cosa-quando e qui nessun problema: c’è una mansione da svolgere e un orario da rispettare.

La supervisione attiene al come.

Quanti imprenditori e manager sono in grado di analizzare l’approccio al lavoro dei propri dipendenti e indirizzarli verso modalità per loro più efficaci?
Quanti sono in grado di creare moduli e processi sufficientemente flessibili da consentire un margine di scelta al singolo lavoratore senza inficiare l’efficienza complessiva del gruppo?

6. Fiducia. La fiducia, in azienda come nella vita, deve essere duplice.

Anzitutto, fiducia della dirigenza in sé stessa. Nella propria autorevolezza, nella propria guida.
L’ansia di controllo, il timore di essere traditi con scarso rendimento o peggio, sono chiari segni di insicurezza e forse inadeguatezza nel ruolo.

E poi fiducia verso il lavoratore. La certezza che farà il suo anche senza essere controllato, perché lo vuole fare.
Per ottenerla serve un commitment forte: il lavoratore deve sentirsi ingaggiato, non solo assunto.
Deve capire la rilevanza del proprio contributo; deve percepire di far parte di un progetto di crescita più grande di una parte della quale, per quanto minima, ha la responsabilità; deve sentirsi libero di esprimere le proprie perplessità e/o proposte in un’ottica di miglioramento della produttività e della qualità del proprio lavoro

Con questi elementi, il lavoro potrebbe diventare veramente agile.
Migliorerebbe la qualità della vita dei dipendenti, la produttività aziendale, l’impatto sull’ambiente (meno emissioni per i trasporti, meno edifici monstre per ospitare contemporaneamente centinaia di dipendenti), con ricadute positive, alla fine, sull’intera comunità territoriale e sull’economia del Paese.

Come spesso accade, finora si è lavorato sulla coda, mentre si doveva partire dalla testa.

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