All’età di tre anni ho deciso di diventare vegetariano; in…
Oggi mi sono accorto di avere 249 richieste di contatto su LinkedIn che si sono accumulate negli ultimi mesi. Episodio per lo meno curioso per una persona che tutti ritengono precisa oltre misura (sono Svizzero mica per niente).
In realtà dietro ci sono alcune considerazioni sulle quali sto ancora ragionando.
A gennaio ho lasciato il mio lavoro di HR Manager in azienda e, con il mio socio, abbiamo fondato un’agenzia di consulenza, quindi dovrei essere felice di estendere il mio network. E invece è proprio il contrario.
D’un tratto mi sembra di non aver più nulla da offrire in termini di opportunità: non lavoro più in una grande azienda e non ho più voce in capitolo sulle molte (e interessanti) posizioni aperte.
Mi chiedo insomma se le richieste siano dettate dalla posizione che appariva sino a qualche tempo fa sul mio profilo e se in un certo senso non tradisca le aspettative.
Episodio confermato proprio in questi giorni: due messaggi inmail di un candidato che dapprima mi proponeva con entusiasmo di entrare in contatto, facendo presente di aver sottoposto la sua candidatura, e poi, accortosi della mia nuova posizione, faceva dietrofront con eleganza ed un pizzico di disagio. Un po’ come quando la conversazione sembra entrare nel più bello e poi spunta una fede nuziale che non si notava!
Una forma di promiscuità (professionale)
Allo stesso modo provo un certo imbarazzo nel richiedere io di entrare in contatto. Prima, quando leggevo qualcosa che mi piaceva, davo un’occhiata al profilo e contattavo la persona senza troppi problemi. Lo stesso nostro progetto imprenditoriale è nato così, durante una cena di sconosciuti a Milano, che avevano in comune solo di essere contatti su LinkedIn.
E in effetti, a ben pensarci, ho bevuto caffè con decine di sconosciuti in Italia e in Svizzera, solo per il piacere di farlo, che neanche un tinderista seriale. E ora…
Ora chi sono? Chi sono per gli altri? Non nascondo di sentire un certo disagio all’idea che qualcuno possa pensare di me che sto chiedendo il contatto unicamente per vendere i nostri servizi. Perché è fastidioso, diciamocelo: Buongiorno, mi chiamo Andrea e ho un bellissimo servizio da vendere.
Ora capisco anche l’imbarazzo di alcune persone quando mi chiedevano il collegamento e si sentivano in dovere di giustificarsi. E, parallelamente, capisco ancora meno chi invece cercava di venderti la madre già nel primo messaggio che accompagnava la richiesta di contatto.
Qual è il giusto equilibrio tra costruire una rete relazionale e invece sfruttarla? C’è un equilibrio? O forse accettiamo tacitamente la regola implicita che siamo tutti qui alla ricerca di qualcosa? E sarebbe un male? Le relazioni, in un contesto di questo tipo, possono ancora essere autentiche?
Il dilemma degli aborigeni
D’un tratto mi torna in mente Guzzanti e quella magistrale spiegazione dell’Internet
“…La possibilità cioè di veicolare un numero enorme di informazioni in un microsecondo, mettiamo caso a un aborigeno dalla parte opposta del pianeta… Ma il problema è: “Aborigeno, ma io e te che cazzo se dovemo di’?”
È curioso come, nonostante la mia solida esperienza in questo ambito e pur avendo consigliato per anni amici e parenti sulle modalità di utilizzo di LinkedIn, mi senta interpellato da questioni di questo tipo per la prima volta.
Che fare? Che dire? Ha senso?
Ci ho pensato e credo la soluzione stia nell’omnia munda mundis di manzoniana memoria: tutto è puro per i puri, e penso proprio che da oggi ricomincerò ad accettare collegamenti e richiederne altri senza farmi ingabbiare da preconcetti e considerazioni. Alla fine siamo tutte persone e con le persone ci si parla.
Forse anche gli aborigeni la pensano così. O no?
Cosa ne pensi?
All’età di tre anni ho deciso di diventare vegetariano; in seconda elementare, la maestra ha convocato i miei genitori perché “non era normale” che un bambino conoscesse tutti i nomi dei funghi in latino; a 13 anni ho amato per la prima volta senza sapere che non era amore; a 15 ho smesso di fare decathlon perché odiavo la competizione; ancora minorenne, sono stato processato da una corte marziale. A 20 anni mi sono sposato e a 23 ho divorziato; a 25 anni dirigevo una start-up che ho fatto fallire; a 29 ho avuto la meningite, sono morto ma non ho saputo restarlo. A 35 anni ho vissuto una relazione poliamorista e sono diventato padre di figli di altri. A 42 mi sono licenziato da un posto fisso, statale e ben pagato per fondare l’Agenzia per il Cambiamento Purple&People e la sua rivista Purpletude. A parte questo, ho 20 anni di esperienza nelle risorse umane, ho studiato a Ginevra, Singapore e Los Angeles, ho un master in comunicazione e uno in digital transformation e ho tenuto ruoli manageriali in varie aziende e in quattro lingue diverse: l’ONG svizzera, la multinazionale francese, le società americane quotate in borsa, la non-profit parastatale. Mi occupo soprattutto di comunicazione del cambiamento, di organizzazioni aziendali alternative e di gestione della diversità – e scrivo solo di cose che conosco, che ho implementato o che ho vissuto.