
Appassionata di crescita e condivisione, affamata di conoscenza e confronto,…
L’innovazione tecnologica aumenta il benessere delle comunità e dei lavoratori.
L’innovazione tecnologica ci rende schiavi e fa regredire i diritti dei lavoratori.
Chi ha ragione?
Entrambi e nessuno.
Non perché la verità stia nel mezzo ma perché, come quasi sempre accade, la verità cambia con la posizione di chi osserva.
Se avessi un genitore malato di Alzheimer, sarei felice di fargli ospitare il cugino italiano di Pepper.
Questo robot umanoide, dotato di intelligenza artificiale e capace di livelli base di empatia, è il frutto della ricerca coordinata da Silvia Rossi all’Università Federico II di Napoli.
Assiste i malati di Alzheimer come un badante, ricordando loro di mangiare, lavarsi, prendere le medicine, e ne monitora lo stato di salute complessivo. Il progetto è ancora in fase sperimentale (con 40 esemplari) ma da ottobre, analizzati i dati e apportate le opportune modifiche, potrebbe entrare in produzione. I costi sono alti, ma inferiori a quelli di un’automobile (entro i 15mila euro).
Vista con gli occhi di una figlia, l’innovazione tecnologica è meravigliosa.
Se fossi un’impiegata con mansioni di inserimento dati, l’innovazione tecnologica che consente di fare il mio lavoro con meno tempo, costi e margini di errore, equivarrebbe al mio licenziamento. Eh sì, perché, fino a qualche tempo fa, una parte di noi si è cullata nell’illusione che le macchine avrebbero sostituito solo gli operai, da sempre sacrificabili sull’altare delle rivoluzioni industriali.
Invece, ora “scopriamo” che una delle categorie maggiormente colpite è e sarà quella degli impiegati con mansioni ripetitive. Ne sanno qualcosa i dipendenti di banche e assicurazioni, così come quelli dell’editoria.
Non tutti sono scontenti o preoccupati
Secondo uno studio dell’Osservatorio sullo Smart working del Politecnico di Milano, pubblicato a ottobre scorso, i lavoratori “agili” sono più felici dei colleghi in azienda.
La ricerca evidenzia che sono più soddisfatti dell’organizzazione del lavoro (39% contro il 18% dei tradizionali) e del rapporto con colleghi e superiori (40% contro 23%).
Va detto che il modello di lavoro agile ha ancora molte carenze (ne ho parlato qualche mese fa sempre qui su Purpletude) ma il percepito è indiscutibilmente positivo, tanto che, nel 2018, il numero di dipendenti che hanno aderito a questo modello è cresciuto del 20% rispetto all’anno precedente (480mila persone pari al 12,6% del totale degli occupati).
Sono contente anche le aziende, perché la produttività media di questi lavoratori è cresciuta del 15%, mentre l’assenteismo si è ridotto del 20% e i costi di gestione addirittura del 30%.
Quindi, tutto bene. O forse no.
Basta, di nuovo, cambiare il punto di osservazione.
Se ci spostiamo da quello del singolo (dipendente o azienda) ad uno più ampio, la visione è addirittura allarmata.
In una recente intervista rilasciata a Key4biz.it, il professore Alberto Contri delinea scenari piuttosto cupi:
“Può sembrare una bestemmia, ma penso si possa affermare che oggi abbiamo disposizione molta più tecnologia di quella che ci serve, o meglio di quella che può essere applicata coerentemente con lo sviluppo umano” e continua “Trasferire le lavorazioni ripetitive dall’uomo al robot è un ottimo intento, se non si stesse dimostrando che agli esseri umani vengono lasciate mansioni residuali. (…) Avviene così che centinaia di migliaia di lavoratori stiano regredendo ai livelli dei tempi in cui imperavano i Padroni delle Ferriere”.
Nella stessa intervista il professore anticipa il lancio, nei prossimi mesi, del movimento GRU, “Gruppi di Resistenza Umana”, contro “l’improvvisazione, la falsa retorica, lo scarso studio, il degrado del senso critico, del sapere, dell’educazione, della formazione”.
Genesi o Apocalisse?
Di nuovo, entrambe e nessuna delle due.
Stiamo assistendo e continueremo ad assistere a importanti cambiamenti nel mondo del lavoro, di cui la tecnologia e la digitalizzazione sono al contempo causa e conseguenza, in un circolo che difficilmente potremo immaginare di interrompere.
Il prezzo più alto lo pagheremo noi over 40, che per questo tempo siamo spesso vecchi e impreparati.
La sfida sarà consentire ai nostri giovani di cavalcare queste opportunità e, in un futuro prossimo, gestirle e – perché no? – riumanizzarle.
Finora stiamo procedendo male, tentando d rincorrere i continui sviluppi con una formazione che, per sua natura, è troppo lenta.
Sono convinta che la vera rivoluzione culturale consista nello smettere di trasferire conoscenze e nel cominciare a favorire lo sviluppo di competenze,
Se vogliamo che i giovani non siano fagocitati dalle nuove tecnologie, la scuola dovrà fornire loro conoscenze di base, che consentano di approcciare questi temi con consapevolezza, ma concentrare le maggiori energie nel supporto allo sviluppo di competenze trasversali, prime fra tutte il senso critico, la flessibilità e l’empatia.
Al resto provvederanno percorsi di formazione permanente da cui le aziende, tutte, non potranno più esimersi.
Stiamo lasciando loro un mondo malconcio e che ci fa paura, perché ne abbiamo perso il controllo.
Per lo meno, permettiamo loro di impugnarne le redini con mano ferma e idee nuove.
Cosa ne pensi?

Appassionata di crescita e condivisione, affamata di conoscenza e confronto, inguaribile ottimista sulla possibilità di ciascuno di contribuire al bene comune, dopo 17 anni nel mondo sales e marketing, nella mia vita attuale sono trainer e facilitatrice supportando lo sviluppo dei singoli e dei team e la gestione costruttiva dei cambiamenti e delle relazioni.