All’età di tre anni ho deciso di diventare vegetariano; in…
A un certo punto, mi sono ritrovato a capo di un team di professionisti HR provenienti da due aziende molto diverse che si erano appena unite sotto lo stesso tetto. Dove “unite” era l’eufemismo che utilizzavamo nei confronti dei collaboratori, per descrivere una situazione in cui una s’era cannibalizzata l’altra.
L’azienda acquisitrice era molto orientata al fare: la frase che sentivo più spesso era “veloce e non preciso”. L’azienda acquisita era invece l’equivalente di una contessa caduta in disgrazia: tutto ciò che le restava era un sostanzioso patrimonio immobiliare, una illustre reputazione e una enciclopedia di regole da galateo.
Lo scontro culturale è stato titanico.
REGOLARE O NON REGOLARE, QUESTO È IL DILEMMA
Ma non è di questo che volevo parlare, oggi.
Volevo raccontarvi di quanto fosse incomprensibile, per me, che tutto quanto fosse codificato, che ci fossero regole ovunque e che il manager non avesse il minimo spazio per esercitare un po’ di discrezionalità.
Venivo da realtà essenzialmente americane e… definirle “non strutturate” sarebbe scorretto; direi piuttosto… delle realtà “ad alto grado di flessibilità”. Il sistema meritocratico che ci contraddistingueva come azienda incentivava di fatto comportamenti diversi in situazioni uguali.
E poi, d’un tratto, mi ritrovo a capo di un team abituato ad aprire il contratto collettivo e i regolamenti di applicazione ad ogni singola richiesta. Uno shock.
Per dire, un esempio su tutti: c’era scritto nero su bianco anche a quanti giorni di congedo avesse diritto un collaboratore che addestrava cani da valanga. Giuro. C-A-N-I D-A V-A-L-A-N-G-A! E perché questo? Probabilmente perché in passato era successo che qualcuno chiedesse un permesso pagato per questo tipo di attività, assimilabile a un intervento di utilità pubblica (per lo meno in un Paese come la Svizzera, dove il 70% del territorio è ricoperto da montagne), e fosse stato deciso di concederglielo. E quindi, in nome dell’equità, era stato ritenuto opportuno mettere una regola uguale per tutti, nel caso in futuro si fosse ripresentata la stessa domanda.
CHI HA PAURA DELL’ECCEZIONE?
A mio avviso, noi HR siamo troppo ossessionati dalla paura dell’eccezione. Vogliamo che i processi siano uniformi e uguali per tutti, come se uguaglianza fosse sinonimo di equità. Non lo è. Dobbiamo capire che questo modo di fare è rassicurante per noi e anche per l’azienda, visto che contribuisce a metterci al riparo da eventuali colpi di coda giuridici, ma è anche il modo migliore di deresponsabilizzare completamente la linea.
Serve a poco spingere sulla formazione manageriale, lamentarci che i manager non facciano i capi ecc. ecc. se poi gli togliamo gli strumenti per esercitare il loro ruolo.
Come manager, vorrei poter aver la possibilità di trattare in modo differente le persone che lavorano con me. A Giacomina pago un master perché se lo è meritato, a Paoluccio invece non do neppure l’aumento perché il suo livello di performance non è stato adeguato, quest’anno. E anzi: mi rode di dovergli garantire lo scatto salariale legato all’anzianità, perché il suo contributo all’azienda non è stato lo stesso di quello dei suoi colleghi.
Evidentemente ci vuole una buona padronanza della gestione dell’ambiguità e, soprattutto, è necessario del coraggio manageriale: perché le regole, spesso, sono scudi dietro ai quali ci trinceriamo. Io vorrei darti l’aumento, eh, ma non posso: è contro le regole dare un aumento a metà anno. Dobbiamo aspettare gennaio. Ne riparliamo, ok?
NON TUTTO È ANARCHIA
Quando ci preoccupiamo troppo delle regole, ci trasformiamo in poliziotti del sistema. Non è il nostro mestiere: gli HR dovrebbero parlare meno di processi e più di cultura, fiducia, conflitti e un paio d’altre migliaia di questioni che riguardano da vicino gli esseri umani e che sono fondamentali per tutti all’interno di una qualsiasi organizzazione.
L’obiezione più comune è che una società civile deve darsi delle regole. Che altrimenti sarebbe l’anarchia. Bene. Parliamo di queste regole: c’è un contratto di lavoro, un numero di ore settimanali che richiediamo al collaboratore, che ha dei compiti e delle mansioni, e in cambio delle quali lo retribuiamo con un salario pattuito, pagato sempre lo stesso giorno del mese.
Non mi sembra un’organizzazione anarchica. Affrontare in modo critico le regole non vuole dire eliminarle. Vuol dire trovare gli spazi di autonomia; trovare compromessi che siano favorevoli a tutte le parti; vuole dire pagare con flessibilità la flessibilità che si domanda.
I SIGNORI DEL TEMPO
Un conoscente mi parlava della sua azienda come di una datrice di lavoro modello. L’esempio che mi riportava è agghiacciante: era obbligato a finire il lavoro alle 17:00 perché altrimenti il giorno dopo doveva giustificare i tre minuti in più. Tre minuti che doveva recuperare in giornata, tra parentesi. Riceveva quindi l’autorizzazione (scritta) del superiore per partire alle 16:57. A suo modo di vedere, questa gestione era esemplare e giusta.
Onestamente mi domando come si possa anche solo pretendere che una persona ci metta un po’ di passione nel proprio lavoro in condizioni come queste. Ho avuto un’idea geniale per l’evento aziendale! Bravo, ma spiegamela domani perché mancano cinque minuti alla fine del turno e rischiamo di essere interrotti dalla campanella.
Un HR che si accontenta di giocare al signore feudale che gestisce il suo territorio con regole e punizioni si perde tutto ciò che c’è di buono nella nostra professione. E, di rimando, anche nella gente.
Cosa ne pensi?
All’età di tre anni ho deciso di diventare vegetariano; in seconda elementare, la maestra ha convocato i miei genitori perché “non era normale” che un bambino conoscesse tutti i nomi dei funghi in latino; a 13 anni ho amato per la prima volta senza sapere che non era amore; a 15 ho smesso di fare decathlon perché odiavo la competizione; ancora minorenne, sono stato processato da una corte marziale. A 20 anni mi sono sposato e a 23 ho divorziato; a 25 anni dirigevo una start-up che ho fatto fallire; a 29 ho avuto la meningite, sono morto ma non ho saputo restarlo. A 35 anni ho vissuto una relazione poliamorista e sono diventato padre di figli di altri. A 42 mi sono licenziato da un posto fisso, statale e ben pagato per fondare l’Agenzia per il Cambiamento Purple&People e la sua rivista Purpletude. A parte questo, ho 20 anni di esperienza nelle risorse umane, ho studiato a Ginevra, Singapore e Los Angeles, ho un master in comunicazione e uno in digital transformation e ho tenuto ruoli manageriali in varie aziende e in quattro lingue diverse: l’ONG svizzera, la multinazionale francese, le società americane quotate in borsa, la non-profit parastatale. Mi occupo soprattutto di comunicazione del cambiamento, di organizzazioni aziendali alternative e di gestione della diversità – e scrivo solo di cose che conosco, che ho implementato o che ho vissuto.