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Il linguaggio truffaldino del mondo del lavoro: manipolazioni, inglesismi e altre calamità

Il linguaggio truffaldino del mondo del lavoro: manipolazioni, inglesismi e altre calamità

Impiegati in ufficio

Gli annunci di lavoro ci costringono a cercare come rabdomanti la verità dietro a parole ed espressioni tanto ricorrenti quanto pompose, fuorvianti e anglofile quel tanto che basta a renderci sospettosi. Triste verità o cultura della diffidenza?

Buona la prima.

Sogno un’app capace di tradurre quegli annunci dallo stilema inconfondibile che hanno consolidato nei decenni un vero e proprio linguaggio foriero di sventure. Avremmo bisogno di un programma di demistificazione in tempo reale installato sui nostri smartphone, che funzionerebbe più o meno così:

Multinazionale leader nel settore ricerca junior consultant con forte motivazione, entusiasmo, ambizione e predisposizione al team working. Si offre contesto aziendale sfidante. La nostra vera risorsa sono le persone.

Copiando il testo, incollandolo e pigiando su translate, otterremmo:

Dal momento che le segretarie e gli impiegati d’ordine a tempo pieno ci costano troppo – ben 1616,68 euro lordi mensili per 14 mensilità più gli oneri contributivi – cerchiamo giovani laureati disposti a lavorare per una pacca sulla spalla e pronti a mollare tutto per correre dalla nostra azienda cliente”.

Qual è il ruolo degli anglicismi?

Sulla diffusione degli anglicismi in Italia si è espresso il linguista Stefano Ondelli, intervistato da Virginia Zittin.

Appurato che la lingua inglese è per noi italiani, storicamente, una lingua di prestigio in grado di conferire appeal anche ai mestieri più umili, con il commesso che diventa shop assistant, la contabile accountant, la telefonista che in alcuni annunci diventa l’addetta ad attività di phon collection (sic) o ancora di phone colletion (re-sic) e, già che parliamo di capelli e messa in piega, la parrucchiera che diventa hairstylist, e così via;

stabilito che in Germania e in Olanda, dove l’economia è più solida, si fa molto meno ricorso agli anglicismi negli annunci di lavoro e che il feticismo per la lingua inglese va a braccetto con l’intimo desiderio di esser servili davanti ai forti e ai potenti della Storia e ai loro idiomi, con l’irrinunciabile punta di masochismo dal DNA tutto italiano;

chiarito che queste mansioni, che oggi ci sembrano tanto cool, sono quelle che una volta chiamavamo con altri nomi, ma con decisamente meno tutele e garanzie, come il più che mai emblematico portapizze pagato a cottimo – sotto la pioggia e tanto instabile sulla sua bicicletta che già lo vediamo sdraiato sull’asfalto in attesa di soccorsi che oggi chiamiamo rider;

date per vere tutte le precedenti considerazioni, mi chiedo: fin dove ci possiamo spingere nell’analizzare il linguaggio del mondo del lavoro senza scadere nel piagnisteo, o peggio, nel complottismo? E soprattutto, come difenderci?

Il problema non è soltanto l’utilizzo della lingua inglese. C’è di più, e si chiama “manipolazione”, fenomeno già documentato nella letteratura di riferimento. L’alchimia di questo gergo del lavoro – spesso veicolato da strapagati guru del marketing non si avvale soltanto di anglicismi, ma anche di una retorica manipolatoria concepita per traghettarci dall’idea del diritto al lavoro, richiamato fortemente dalla nostra Costituzione, all’idea del lavoro come merito che, come tale, dovremmo guadagnarci sacrificando pezzi sempre più consistenti della nostra esistenza. Michela Marzano ha magistralmente analizzato, nel suo saggio “Estensione del dominio della manipolazione”, quel “disagio della contemporaneità” che, anche a causa di questi linguaggi sapientemente costruiti, si sviluppa in dipendenti e manager.

Anche Michela Murgia, certo più amenamente ma comunque molto efficacemente, nel suo “Il mondo deve sapere”, attraverso l’impietosa narrazione dell’“inferno del telemarketing” e dell’utilizzo truffaldino della PNL (Programmazione Neuro Linguistica) ci regala strumenti preziosi. Murgia mette alla berlina quelle aziende che sfruttano, a vari livelli, tanto i venditori porta a porta quanto le telefoniste addette a fissare gli appuntamenti, fino ad arrivare alle ingenue clienti, le povere casalinghe, in una diabolica dinamica a catena in cui il più forte si rifà sul più debole servendosi ad oltranza di manipolazione, seduttività e mistificazione delle parole (tutte pratiche insegnate in briefing ad hoc dalle aziende stesse, of course).

Potente anche il film che dal libro della Murgia è stato tratto, “Tutta la vita davanti” del 2008, a firma di Paolo Virzì. La protagonista è una neolaureata in filosofia con 110 e lode che, arresasi ad un mondo della scuola che non le offre prospettive di inserimento come dimenticare l’immagine, fotografia di una generazione, del concorso pubblico per insegnanti a Roma organizzato in una struttura mastodontica e traboccante di giovani disillusi e sconfitti ancora prima di iniziare le prove? – si butta, è proprio il caso di dirlo, nel telemarketing, ritrovandosi catapultata in una realtà finta e delirante della quale Sabrina Ferilli è mattatrice (una Ferilli peraltro molto brava nell’interpretare la parte della capo-telefonista che tiene le fila e che ha l’ardito compito di rendere credibile la bugia, convincendo tutti, a partire da se stessa e ripetendo come un mantra e fino al parossismo, con tanto di canzoncine e stacchetti che quello è un lavoro davvero “speciale!”, una “straordinaria opportunità!”, una “vera fortuna!”).

Dietro alla manipolazione delle parole, si cela una dinamica vecchia come il mondo, quella dello sfruttamento, anche se per molti questo concetto è desueto e occorrerebbe “adattarsi al mondo che cambia”, rinunciando all’idea del lavoro tutelato, garantito e dignitoso.

Del resto, decenni di manipolazione collettiva hanno portato i loro frutti. Ormai, coloro che dissentono da un certo modo di intendere e di concepire il lavoro, fra i quali mi annovero, sono considerati dai più come riottosi, disturbanti e non meritevoli di avere un impiego qualsiasi.

Noi chi, esattamente? Noi che critichiamo la pratica del team building dichiarando che obbligare i dipendenti a partecipare a “momenti conviviali” finalizzati a “condividere lo spirito e la mission aziendale”, momenti non pagati ma comunque obbligatori, è un’immane stupidaggine; noi che non usiamo il “noi” per parlare dell’azienda in cui lavoriamo perché non ci identifichiamo in quello che facciamo per campare ma in ciò che siamo nella nostra vita, tutta, anche la parte non monetizzabile che è fatta di affetti, valori e tempo libero; noi che ai colloqui di lavoro non ci diciamo “entusiasti” e che non ci mettiamo a saltellare come Julie Andrews nel film “Tutti insieme appassionatamente” all’idea di lavorare in un’assicurazione in qualità di addetti al recupero crediti; noi che ci indigniamo quando leggiamo un annuncio di lavoro che inizia richiedendo una laurea, la conoscenza di tre lingue, un’esperienza professionale significativa e che si conclude con l’enigmatico quanto ferale “stipendio: non disponibile, contratto: da definire”; noi che abbiamo un’idea ancora europea del lavoro come diritto che va tutelato e della dignità del lavoratore e che ancora riteniamo lo Statuto del Lavoratori una conquista di civiltà; noi che pensiamo tutte queste cose pur potendo asserire di essere persone dall’elevata professionalità, serietà e capacità.

Nel mio caso personale posso affermare pubblicamente e con assoluta tranquillità che tutti i miei datori di lavoro, presenti e passati, in questi diciotto anni di lavoro dipendente, così come i miei committenti nell’ultimo periodo, potrebbero produrre su mia richiesta le migliori referenze.

Chiarito che chi ancora intende il lavoro come un diritto da tutelare e proteggere non è necessariamente un “pelandrone”, come una certa retorica tende ad affermare ogni volta che si dibatte di lavoro, che fare? Come difenderci da inglesismi, PNL e manipolazione?

La risposta è piuttosto banale, ma non scontata: difendendo la nostra autostima, anzitutto. Perché ogni tipo di manipolazione – da quella in ambito lavorativo a quella relazionale riesce a passare tra le maglie della nostra capacità di credere in noi stessi e nella nostra professionalità o valore solo e soltanto quando siamo fragili, quando ci convinciamo di non valere abbastanza. Ho conosciuto troppe persone capaci e davvero in gamba massacrate dell’idea di non essere abbastanza perché non conformi ai canoni che la ricerca di un lavoro qualsiasi oggi impone: perché troppo vecchie (a 40 anni!), perché troppo qualificate e con troppa esperienza (in realtà soltanto perché pretenderebbero di essere pagate il giusto e quindi problematiche per un sistema che privilegia sempre e comunque l’opzione più economica a scapito della professionalità), perché donne, perché con preoccupanti trascorsi legati all’attivismo politico o sindacale (oibò!), perché poco servili o gregarie, perché grasse o poco avvenenti.

Di autostima abbiamo parlato a un evento organizzato da Mursia, il mio editore, per Bookcity domenica 17 novembre, presso il centro Mare Culturale Urbano a Milano. Il tema dibattuto era in realtà quello dell’amore e del suo legame con la giustizia e con la politica, ma il passo che ci ha portato sull’amore verso se stessi è stato breve. Uno scrittore, mio co-relatore, ci ha raccontato un aneddoto sulla sua analista reichiana, la quale gli avrebbe caldamente raccomandato di guardarsi allo specchio, di farsi tanti bei complimenti e di non dimenticare di farlo ogni mattina come esercizio. Certo questa pratica ci può far sorridere, ma una buona contro-manipolazione alla svalutante manipolazione che costantemente ci viene propinata, nel mondo del lavoro e non solo, è secondo me necessaria, che si tratti di farsi i complimenti allo specchio o di frequentare un po’ di più quell’amico che ci sa incoraggiare e ricordare quanto valiamo. Insieme, come sempre, a una buona cultura, fatta dei testi giusti che ci insegnino a pensare, distinguere e discernere.

Insomma, contro la primazia della manipolazione in molti contesti lavorativi, occorre combattere. Soltanto così potremo fronteggiare chi vuole sfruttarci, demansionarci e sottopagarci. Oltre ai testi di Marzano e Murgia, consiglio i libri della criminologa Cinzia Mammoliti, in particolare “Non mi freghi più. Prontuario operativo per difendersi da manipolatori relazionali, narcisisti patologici & co.”, nel quale troviamo efficaci strumenti di difesa da capi, capetti e supervisor che cercano di instillarci senso di inadeguatezza al solo fine di poterci sfruttare meglio o comunque depotenziare il nostro senso critico.

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