
Fabio Martinez è scrittore (ha pubblicato tre libri e Il…
Il mondo della ristorazione mi affascina tantissimo. Vedo in esso l’eccellenza che può essere raggiunta solo tramite vera passione, talento, duro lavoro e creatività (per non parlare di tutto il resto) e non solo dello chef ma di ogni componente del ristorante. Mangiare, per me, è come andare a un concerto, al cinema, come ascoltare le parole di un maestro; ma mi domando sempre quale sia il miglior modo per farlo, posto questo esista. Così ho deciso di chiederlo a Pasquale Caliri, chef ALMA del Marina Del Nettuno Yachting Club di Messina, Ambasciatore del Gusto e direttore della rivista online ilgustosino.it.
– Chef, a lei piace andare al museo o in gallerie d’arte?
– Se è vero che l’arte è l’incontro di forme e colori che prima non esistevano, quale posto migliore per uno chef? Sembra proprio la definizione della cucina. Adoro l’arte contemporanea, anche quella che pare così incomprensibile. Credo sia eccitante cogliere come l’artista, il genio creativo, tenti di tradurre in bagliori di colori e forme i suoi stati di coscienza. Spesso una visita al Museo può essere fonte di ispirazione per nuovi piatti. Sa come la penso? Solo un’anima nutrita può ben nutrire.
– Però sa che, in realtà, i musei non è che mi facciano impazzire poi tanto? Mi spiego meglio: se ci vado per vedere solo poche opere, allora riesco a godermele e anche, un minimo, a capirle. Almeno credo. Ma, se giro tutto un museo, mi resta poco. Anzi, il più delle volte esco confuso o addirittura deluso. Insomma, mi sto rendendo conto che per me sarebbe meglio visitare tutti i musei così: pochissime opere alla volta.
– Anni fa un’opera di Emilio Isgrò al Museo di Parma mi ispirò particolarmente. Un quadro gigantesco, a tutta parete, di colore rosso vivo e con la didascalia: “Mao Tse-Tung vestito di rosso riposa nel rosso più rosso”. Un’opera estrema, come solo il nostro conterraneo riesce a fare con la sua arte di sottrarre anche parole nei suoi scritti, fino a dare loro significati altri. Da quella visita nacque un piatto che presentai al Taormina Gourmet due anni fa: “Il Gambero rosso vestito di rosso riposa nel rosso più rosso”. Un piatto monocolore, rosso, coperto da un sottilissimo velo di gelatina rossa, servito su un quadro. Come una tela. Ovviamente, per quanto mi riguarda, è fondamentale sposare l’aspetto provocatorio con quello gustativo. Ma l’arte della sottrazione di Isgrò non era forse la stessa di Gualtiero Marchesi che continuamente ci invitava a togliere ingredienti dai piatti piuttosto che aggiungere? Il Maestro infatti sosteneva che per regalare purezza di gusto occorreva andare all’essenza. Sono di scuola Marchesi e pratico questo principio.
– Sono anch’io per l’essenzialità, pure e soprattutto nella scrittura. Reputo infatti che il miglior scrittore sia quello che ognuno ha dentro di sé, così lascio molto spazio all’immaginazione del lettore. Ma le parlo dei musei e delle gallerie perché un po’ mi fanno pensare ai ristoranti. In quelli gourmet offrite la possibilità di fare una degustazione di più portate. È un’opportunità preziosissima ma, francamente, riesco a comprendere meglio i piatti quando ordino alla carta e così li ricordo tutti più facilmente, poi.
– Il menù degustazione è un racconto. Una veduta sul mondo reale dello chef. Qui ci sentiamo più liberi. Sarebbe interessante anche un menu a mano libera completamente improvvisato. Certo non facile da attuare per i limiti di organizzazione di una cucina professionale. Comunque sì, degustate e vi sarà aperto.
– Salto di comparazione in comparazione e penso anche alle antologie e alle opere complete. Se leggiamo una raccolta di poesie sparse o, peggio ancora, di brani di romanzi o racconti, quanto ci perdiamo dell’anima dell’autore?
– Ci perdiamo nell’anima dell’autore, se egli riesce a specchiarsi nella nostra. I libri che più ci catturano non sono forse quelli dove in un certo senso cogliamo parti di noi? Come in un piatto. Se un cuoco riesce a collegare una preparazione a una emozione del commensale, a richiamare un gusto, un profumo, un aroma, magari sepolto nella memoria, quel piatto ha vinto.
– Sarebbe allora uno spreco e una follia andare in un determinato ristorante gourmet per la prima volta e ordinare anche solo tre o quattro portate?
– La follia è libertà. Le vie per l’emozione non sono tracciate da confini, ci mancherebbe se li mettessimo a tavola.
– Lei come fa, quando va a mangiare gourmet? Anche non gourmet, in effetti. Preferisce visitare tutte le sale del museo o della galleria, anche se ha solo due ore di tempo, o preferisce concentrarsi su poche opere? Certo, questo credo che dipenda sempre dal fruitore e che non vi sia una regola, un modo più corretto o migliore dell’altro, no?
– Infatti il motto è “deregulation”. Dipende dal momento, dal tipo di ristorante, dalla compagnia. Un giorno ordinai in un ristorante l’intero menu dei dessert perché quel cuoco era abile in pasticceria, mi guardarono un po’ sorpresi. Ogni comanda bizzarra crea curiosità in cucina. Lo ripeto ancora: libertà. Pacifichiamoci anche di fronte alle divisioni tra le diverse forme di cucina: un giorno, potrei avere voglia di un panino, l’altro di un tre stelle Michelin. A tavola non occorre sposarsi.
– Reputo la cucina assolutamente un’arte, anche intesa come potrebbero intenderla in estremo oriente. Quanto, secondo lei, viene vista così e quanto si perde l’avventore che pensa solo a nutrirsi o soltanto alla convivialità?
– In Oriente il concetto di riproduzione dell’arte, come del piatto, è diverso dal nostro. Gli orientali riproducono per raggiungere la perfezione. Pensi ai sushi-chef che seguono il loro maestro per sette anni prima di affettare da soli. Da noi è l’opposto. L’esigenza di reinventare, personalizzare, identificare è onnipresente. Non sempre è un bene. Se mi chiede dove finisce l’arte e comincia la nutrizione, in sintesi, le direi che occorre stare in equilibrio. Si va al ristorante per emozionarsi ma anche per cibarsi, hai voglia di arte, sì, ma hai anche fame. Il cuoco non deve essere necessariamente un artista ma un artigiano sì. Non dimentichiamolo.
– Lei è anche giornalista. Che rapporto sente tra cucina e parola?
– Strettissimo. Le redazioni dei giornali, non a caso, si chiamano “cucine”. Ogni cuoco coi suoi piatti parla anche se non se ne accorge. Entrambi poi si rivolgono ad un pubblico che li leggerà. Vede quanto è importante non solo prendere coscienza di questo ma imparare a comunicare? Come ogni giornalista ha i suoi lettori, il cuoco ha il suo pubblico di riferimento. O parlano la stessa lingua o non c’è comprensione.
– Me lo consiglia un libro? Il primo che le capita in mente.
– Il filo del sé. Molto Zen.
– Voi chef avete una grande responsabilità, perché avete il potere di nutrire il corpo insieme al cuore, all’anima. Grazie mille per il suo tempo e le sue risposte.
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Cosa ne pensi?

Fabio Martinez è scrittore (ha pubblicato tre libri e Il Graal ritrovato, edito da Tipheret, è il suo ultimo romanzo), sceneggiatore e storyteller. Per narrare (anche impresa), ha inventato un nuovo format (#dialoghidimpresa): dialoghi autonomi, per lo più brevi e che non si esauriscono svolgendo la loro funzione pubblicitaria, restando capaci di durare nel tempo e nello spazio. Possono essere tra due o più persone, tra un essere umano e un animale, un robot, il vento o qualunque altro interlocutore immaginabile. Possono raccontare e parlare di tutto anche dello Zen. D’altronde, il nostro modo di pensare, di ragionare non è un dialogare con noi stessi? Tutta la nostra realtà non è forse un dialogo costante?
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