All’età di tre anni ho deciso di diventare vegetariano; in…
Fare l’editore di questi tempi è eroico. O forse bisogna essere solo tanto bravi.
Uno bravo è sicuramente Enrico Flacowski: è riuscito a far emergere un modello di business inedito e ha trovato il suo pubblico (e i suoi autori).
Le Edizioni Flacowksi vendono solo versioni cartacee ed esclusivamente sul loro sito. Hanno un sistema simile al crowdfounding che però ha regole a se stanti (e infatti lo chiamano “crowdblishing” – probabilmente il compound più brutto mai sentito nella lingua di Shakespeare).
Niente accordi con Amazon o con le Messagerie (il principale operatore italiano nel commercio libraio): i canali di distribuzione sono il loro sito e il network degli autori avviene tramite… il loro sito. Il rapporto autore-editore-lettore è quasi nominativo.
Una follia, insomma.
O una evidenza di bravura e sicuramente un’appropriata verticalizzazione (Flacowski pubblica solo manualistica professionale di marketing e comunicazione).
E dalla parte delle riviste?
Le riviste non se la passano molto meglio.
Alcune importanti testate hanno già fatto il passo dal cartaceo alla versione online (Newsweek negli Stati Uniti, La Presse in Canada, Taloussanomat in Filandia, Marie Claire nel Regno Unito), mentre altre si apprestano a farlo.
Certo, hanno già una base di lettrici e di lettori importanti.
Ma entrano comunque in un’arena ben popolata anche e soprattutto dalle riviste nate online.
Con le piattaforme di blogging come WordPress, infatti, è relativamente facile creare una rivista online (una webzine, come si dice, e questo è il secondo, di compound, più brutto).
Il modello di business
A mio avviso, lo stiamo ancora cercando.
C’è molto modello e poco business. Si ha forse l’impressione che i siti web siano popolati da pubblicità e quindi si pensa che questa sovvenzioni le redazioni, ma non è così. Non lo è neppure per le riviste ex-cartacee, che non sono riuscite a sostituire le entrate della pubblicità offline con quella della pubblicità online.
Molti siti spingono sulla vendita di prodotti, soprattutto tramite i programmi di affiliazione (vi siete mai chiesti perché ci sono così tanti articoli sui 50 regali da fare per la festa della Mamma? Tutti i link rimandano ai siti affiliati che versano una piccola provvigione per ogni acquisto effettuato).
Ma la maggior parte delle riviste vivono grazie al contributo di autrici e autori volontari, o tramite piccole donazioni da parte degli autori stessi, o come costola di un’associazione culturale o una onlus.
Siamo troppi?
È una domanda che faccio spesso alle colleghe e ai colleghi che scrivono per Purpletude: siamo in troppi? Ci sono troppi attori sul mercato?
Sembriamo tanti gladiatori in un’arena di provincia che se le danno di santa ragione, per conquistare un po’ di pubblico e quindi prolungare un po’ la propria esistenza.
Ci sono decine di siti più o meno validi che trattano argomenti simili a quelli che trattiamo in Purpletude; e la maggior parte di queste riviste stanno attraversando grossi problemi.
TheVision ha aperto una campagna di sottoscrizioni, per dire: una rivista professionale che ha 300’000 followers su Facebook. Non noccioline, per una realtà come quella italiana.
Ytali, una rivista online della regione di Venezia, ha appena annunciato che grazie alla generosità dei propri lettori potrà andare avanti ancora un po’.
Lettera43, invece, ha chiuso i battenti, dopo 10 anni.
Perché lo facciamo?
Non lo facciamo per i soldi, questo è evidente.
Ma allora perché lo facciamo? Come mai ci sono gruppi di amici, o di professionisti, o di persone, che neppure si conoscono, che si trovano intorno a un progetto e decidono di animarlo?
È una domanda che ci poniamo spesso in questi mesi: nell’era post lockdown, certe cose non sono certe per niente. Sembra essere un periodo in cui riflettere sul proprio scopo è diventato quasi un passatempo, più che una necessità.
Quello che mi colpisce di tutte le realtà editoriali che conosco, dal piccolo blog alla rivista più organizzata, è la passione delle persone nel voler condividere una loro visione del mondo.
Troppe visioni?
Allora forse sono troppe le visioni?
Eppure c’è un fil rouge che lega la maggior parte delle redazioni: la ricerca di un modo diverso di fare le cose.
Un mondo più giusto, vivibile, sostenibile, solidale.
Ognuno di noi esplora il proprio giardino alla ricerca di soluzioni che, probabilmente, non troverà mai. Perché non sono ancora nate.
Manca ancora un terreno di incontro. Un luogo fertile.
Un posto comune dove coltivare le proprie differenze.
Calling all bloggers
E se unissimo le forze?
Se provassimo a mettere in atto quel cambiamento che stiamo cercando, creando sinergie reali e disinteressate?
Sta a noi fare il primo passo: creare relazioni generative.
E portare agli altri messaggi e idee in grado di (ri)generare il mondo in cui viviamo.
Se hai sentito una eco dentro di te, leggendo queste righe, allora scrivimi:
andrea@purpletude.com
Colonna sonora:
Kerli, Blossom (2016)
Puoi scoprire tutta la playlist di Debarcadero
sul Canale YouTube di Purpletude.
Cosa ne pensi?
All’età di tre anni ho deciso di diventare vegetariano; in seconda elementare, la maestra ha convocato i miei genitori perché “non era normale” che un bambino conoscesse tutti i nomi dei funghi in latino; a 13 anni ho amato per la prima volta senza sapere che non era amore; a 15 ho smesso di fare decathlon perché odiavo la competizione; ancora minorenne, sono stato processato da una corte marziale. A 20 anni mi sono sposato e a 23 ho divorziato; a 25 anni dirigevo una start-up che ho fatto fallire; a 29 ho avuto la meningite, sono morto ma non ho saputo restarlo. A 35 anni ho vissuto una relazione poliamorista e sono diventato padre di figli di altri. A 42 mi sono licenziato da un posto fisso, statale e ben pagato per fondare l’Agenzia per il Cambiamento Purple&People e la sua rivista Purpletude. A parte questo, ho 20 anni di esperienza nelle risorse umane, ho studiato a Ginevra, Singapore e Los Angeles, ho un master in comunicazione e uno in digital transformation e ho tenuto ruoli manageriali in varie aziende e in quattro lingue diverse: l’ONG svizzera, la multinazionale francese, le società americane quotate in borsa, la non-profit parastatale. Mi occupo soprattutto di comunicazione del cambiamento, di organizzazioni aziendali alternative e di gestione della diversità – e scrivo solo di cose che conosco, che ho implementato o che ho vissuto.