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Ripartiamo dalle persone

Ripartiamo dalle persone

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Buon giorno.
Come state?
In questo periodo la domanda appare meno banale, non trovate?
Rispondere: “Bene”, fisicamente ed emotivamente, non è scontato.
Non lo è mai stato.
Anche prima della pandemia le persone si ammalavano, erano tristi, arrabbiate, preoccupate.
Eppure…
Eppure ci sembrava meno importante, meno definitivo.
E così “Come stai?” era una semplice domanda di cortesia, alla cui risposta non prestavamo attenzione; la cui risposta – a volte – non aspettavamo nemmeno.
In effetti, anche quando ce lo chiedevano, lo consideravamo talmente poco sentito (e poco sincero), che anche la risposta era poco sentita e di circostanza: “Bene, grazie. E tu?”.

Una cosa buona

Se c’è una cosa buona venuta da questo periodo, è che ci siamo riscoperti tutti e tutte vulnerabili.
Indipendentemente dal reddito, dalla posizione sociale, dal livello di istruzione, dalla fede, dal genere.

Un nemico invisibile e democratico ci minaccia senza distinzioni.

E allora abbiamo scoperto che – prima di ogni altra cosa – siamo persone.
A pensarci bene, è un’occasione straordinaria.
Recuperare la nostra dimensione umana potrebbe essere la chiave per affrontare le enormi sfide che ci attendono.

E non perché è scoppiata la pandemia: perché erano lì anche prima e per un po’ le abbiamo dimenticate, impegnati a sopravvivere come non ci accadeva da tempo.
Nonostante l’inattività forzata, il surriscaldamento globale, così come l’esaurimento delle risorse naturali, stanno proseguendo a ritmi pressocché invariati.

La recessione economica non è una conseguenza della pandemia. Paradossalmente, gli interventi straordinari di questo periodo potrebbero rallentarla.
Ma era lì, è lì.

Le criticità del nostro sistema sanitario, della scuola, le conoscevamo anche nel 2019.
Perfino la fragilità di certe nostre personalissime relazioni familiari e professionali ci erano – in fondo – note. La vicinanza e la lontananza forzate ci hanno costretti a smettere di ignorarle ‘per quieto vivere’.
Il nostro vivere ha smesso di essere quieto e loro sono emerse.

Non so quante ‘fasi’ dovremo passare prima di recuperare un vivere che somigli al nostro concetto di normalità.
Da più parti si parla di ‘nuova normalità’, come a prepararci al fatto che la normalità – come la concepivamo prima – non potrà tornare più.
Non sposo teorie in questo senso; ma coltivo speranze, e qualche timore.

Temo

Temo che ci stiamo abituando a una socialità mediata dalla tecnologia.
Da più parti sento e leggo che – tutto sommato – si potrebbe continuare a lavorare da remoto anche quando non sarà più necessario.
Che le aziende potrebbero attenuare le perdite di questi mesi eliminando i costi delle sedi fisiche.

Senza entrare nel dibattito sullo smart working, mi permetto di evidenziare un’ovvietà della quale sembriamo non tenere conto: siamo animali sociali.
Abbiamo bisogno di relazionarci con i nostri simili, di comunicare.
E noi comunichiamo con tutto il corpo.

Il proliferare di piattaforme di videoconferenza sta in parte sopperendo a questo nostro bisogno primordiale, ma ha dei limiti.
Il primo è che passiamo una quantità abnorme di tempo davanti a un monitor, con conseguenze fisiche ed emotive pesanti.
Il secondo è che siamo fermi davanti al monitor, con una mobilità limitata; soprattutto, senza la possibilità di toccarci e guardarci negli occhi.

Riaprire cinema e teatri non sembra urgente, perché c’è la televisione.
Potremmo scrivere chilometri sul valore culturale di certa arte non statica, così come sulla quantità di persone (artisti e tecnici) che di quell’arte vivono.
Ma, di nuovo, stiamo perdendo il valore sociale di questi luoghi. Andare al cinema o a teatro insieme è un modo per condividere un’esperienza immersiva, confrontare sensazioni, emozioni, riconoscersi in un concetto di bello soggettivo, aggregante ed esclusivo.
All’ingresso di un cinema o di un teatro, le persone si guardano, si scrutano, si riconoscono tra ‘simili’, perché hanno scelto uno stesso spettacolo.
Quando scelgo un film in televisione, non so quanta gente abbia fatto la mia stessa scelta. Non la conosco, non la ‘riconosco’. Non posso guardarla negli occhi per indagare le sue emozioni.

Spero

Spero che ripartiremo dalla risorsa più preziosa e insostituibile che abbiamo: le persone.

Non ho ricette magiche per riprendere le attività.
Anzi: divento insofferente quando leggo e sento formule generalizzate che banalizzano problemi profondi proponendo soluzioni semplici, seppure solo nella narrazione.

Sono convinta, però, che tutti e tutte possiamo ripartire da una ricchezza condivisa e – se ben gestita – inesauribile: la nostra umanità.
Le organizzazioni sono fatte di persone.
E le persone non sono il loro ruolo, il loro tempo, le competenze che possono mettere a disposizione dell’organizzazione: sono persone.

Non sono risorse, sono persone

Un’organizzazione, senza le persone che la compongono, è una scatola vuota.

In questi mesi ho conosciuto titolari di imprese le cui persone hanno deciso di continuare a lavorare anche a retribuzione ridotta, perfino nell’incertezza di ricevere una retribuzione.
E non erano mosse da opportunismo o bisogno, ma da spirito di appartenenza, da amore verso il proprio lavoro, affetto verso i colleghi, orgoglio professionale (indipendentemente dal ruolo).
Donne e uomini normali che hanno scelto di restare insieme, nonostante le incertezze, di continuare a collaborare e cooperare nonostante le distanze, le carenze tecnologiche, la difficoltà di vivere e lavorare in case improvvisamente diventate troppo piccole e scomode.

Queste imprese, in qualche modo, con i loro tempi, continueranno a vivere; e lo faranno grazie alle loro persone.
Le altre possono provare a cambiare il paradigma.
Possono provare a stilare un bilancio parallelo, non ufficiale, in cui inserire le persone alla voce ‘investimento’ invece di ‘costo’.
Possono provare a chiedere “Come stai?” con sincero interesse, e aspettare, ascoltare e approfondire la risposta.
Possono introdurre il “per favore” e il “grazie”, non come regola di buona educazione, ma come regola di buona vita comunitaria.
Possono provare a considerare il contributo delle persone al loro interno non come l’ovvia contropartita a una retribuzione, ma come un valore aggiunto e stimarlo come tale.

Quando usciremo da questa crisi, ce ne sarà un’altra in agguato; e la globalizzazione continuerà ad accorciare le distanze tra una e l’altra.

Quando e come si potrà contare sul contributo e l’impegno consapevole delle persone farà la differenza tra un problema, una sfida e un’opportunità.

Buona giornata.

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