All’età di tre anni ho deciso di diventare vegetariano; in…
#MeToo – Anch’io
Avevo 25 anni.
Era l’epoca in cui i CV si mandavano ancora per Posta. Per un ragazzo appena uscito dall’Università, senza un soldo, era un investimento importante. Ne avevo inviati 148. Risposte: due. Una negativa, e una che mi proponeva un colloquio conoscitivo.
Avevo messo l’unico vestito buono che avevo e mi ero armato di buoni propositi. Lui era un uomo sulla quarantina, vestito bene, molto sicuro di sé, con la foto di una famiglia felice sulla scrivania.
Mi sorrideva spesso e sembrava sinceramente interessato a me: ero emozionato che un colloquio finalmente stesse andando bene. Fino a quando capii che lui intendeva conoscermi decisamente meglio, e lo disse: “Mi piace mettere i candidati a proprio agio. È comodo il divano? Sai, è un divano letto – ogni tanto risposo in ufficio. Dai, lo apro così te lo faccio vedere”.
L’Asia Argento della situazione (o forse no)
Qualche anno dopo mi è successo di essere dall’altra parte del tavolo.
Ero io a condurre il colloquio e una ragazza di una mansueta bellezza, bei capelli curati e un seno prosperoso, a un certo punto mi guardò, slacciando un bottone della camicetta, e mi disse che si trovava molto bene con me e che era felice di essere stata chiamata.
La cosa terribile è che mi sentii lusingato. Le piaccio, pensai.
Ci misi qualche secondo di troppo nella mia testa per capire che mi stava dicendo che aveva bisogno di quel lavoro e che se fosse stato necessario, avrebbe giocato anche quella carta.
Ne rimasi sorpreso? Sì.
Pensai che era una puttanella? No.
Le risposi in maniera cortese ma decisa e lei cambiò persino posizione sulla sedia, ricomponendosi. E credo che entrambi ci sentimmo tristi, in quel momento: questo è un mondo in cui una persona, soprattutto se donna, pensa che la disponibilità sessuale sia una strada percorribile. E risparmiatemi per favore la falsa morale del genere “io non l’ho mai fatto, piuttosto muoio di fame”. Non è una questione di valori. È una questione di potere: chi ce l’ha, a volte, ne approfitta e, spesso, ritiene che sia normale farlo.
Par condicio
E per evitare di stigmatizzare le donne: mi capitò anche con un candidato uomo. Un professionista del marketing, americano, che si muoveva nel mio ufficio come se fosse casa sua. Un tipo perfetto per il nostro reparto sales. Lo ricordo per quel suo modo estremamente sicuro di sé di occupare lo spazio. Anche, ma non solo.
A un certo punto, mi chiese – mi implorò – di offrirgli un caffè, perché soffriva del jetlag dovuto dal viaggio (era arrivato da Boston quella stessa mattina). Lo bevve veloce, a occhi chiusi, e quando li riaprì, in maniera lenta e coreografica: “Grazie mille, questa è stata la cosa più bella della giornata”, sussurrò, e poi aggiunse, con qualcosa di simile a uno scintillio: “A parte incontrarti, a essere sincero”. E mi sparò a bruciapelo una domanda troppo personale.
Io arrossii. Vi garantisco: non è facile spiazzarmi, durante un colloquio. Ma mi imbarazzò, perché non me lo aspettavo. Sentii proprio la faccia esplodere come un frutto maturo. E lui se ne accorse e questo lo mise a disagio: da lì, cominciò a parlarmi della sua fidanzata. Perché aveva una fidanzata. Forse avevo male interpretato. O forse no.
Rompiamo il silenzio
Credo che sia giunto il momento per tutte e per tutti di spezzare il silenzio di imbarazzo, di vergogna e di paura del giudizio degli altri. Perché gli Harvey Weinstein sono sempre esistiti e in tutti gli ambiti: dallo sport all’azienda, dalla politica alla selezione.
Denunciamo chi esercita il suo potere con i soprusi.
E cambiamo modo di ragionare anche noi, affinché non ci siano più giovani donne e giovani uomini che si ritrovino a pensare che è normale – e a volte persino necessario – darsi via per un lavoro. #MeToo
Cosa ne pensi?
All’età di tre anni ho deciso di diventare vegetariano; in seconda elementare, la maestra ha convocato i miei genitori perché “non era normale” che un bambino conoscesse tutti i nomi dei funghi in latino; a 13 anni ho amato per la prima volta senza sapere che non era amore; a 15 ho smesso di fare decathlon perché odiavo la competizione; ancora minorenne, sono stato processato da una corte marziale. A 20 anni mi sono sposato e a 23 ho divorziato; a 25 anni dirigevo una start-up che ho fatto fallire; a 29 ho avuto la meningite, sono morto ma non ho saputo restarlo. A 35 anni ho vissuto una relazione poliamorista e sono diventato padre di figli di altri. A 42 mi sono licenziato da un posto fisso, statale e ben pagato per fondare l’Agenzia per il Cambiamento Purple&People e la sua rivista Purpletude. A parte questo, ho 20 anni di esperienza nelle risorse umane, ho studiato a Ginevra, Singapore e Los Angeles, ho un master in comunicazione e uno in digital transformation e ho tenuto ruoli manageriali in varie aziende e in quattro lingue diverse: l’ONG svizzera, la multinazionale francese, le società americane quotate in borsa, la non-profit parastatale. Mi occupo soprattutto di comunicazione del cambiamento, di organizzazioni aziendali alternative e di gestione della diversità – e scrivo solo di cose che conosco, che ho implementato o che ho vissuto.