All’età di tre anni ho deciso di diventare vegetariano; in…
Quando Niantic ha lanciato sul mercato Pokémon Go, dalla mia scrivania raggiungevo senza muovermi due Pokéstop. Dopo il lavoro scendevo a piedi verso il centro città, andavo fino al lago, passavo dai giardini pubblici, facevo il giro un paio di volte, incrociavo una coorte di zombie di età diverse che facevano lo stesso, e poi tornavo fino a casa, per la gioia del mio fitbit e dei suoi diecimila passi quotdiani.
Quando il gioco si fa serio
Pokémon Go non è solo un gioco: è (ancora e nonostante tutto) un fenomeno sociale, con 800 milioni di download dal suo lancio nel 2016, ed è un successo commerciale: in due anni ha generato profitti per 2 miliardi di dollari, senza contare l’impatto positivo sulle vendite di Nintendo che controlla il franchising Pokémon. Ma è soprattutto l’app che ha permesso al mondo di scoprire le potenzialità della realtà aumentata (AR, augmented reality).
Un modo di vedere la cosa è immaginare un quarantenne che corre dietro a mostriciattoli invisibili con il suo telefonino, facendo gesti strani sullo schermo e pipicchiettandolo come se stesse cercando di rianimarlo.
Oppure possiamo vedere un professionista appassionato di tecnologia esplorare la sovrapposizione di informazioni generate informaticamente e inserite in un ambiente fisico grazie alla geolocalizzazione.
Quest’ultima è la lettura che suggerisco a chi ha tendenza di bollare la gamification come un fenomeno puerile.
Il gioco, in tutte le sue forme, è da sempre uno strumento di apprendimento, di sperimentazione e di connessione tra le persone. Pensiamo al calcio: a giudicare dalle passioni che scatena, sembra una cosa piuttosto seria.
Tramite il gioco, Pokémon Go stimola l’esercizio fisico (i giocatori regolari hanno aumentato la propria attività fisica del 26%), favorisce la socializzazione (soprattutto dopo l’introduzione della funzione raid, dove ci si associa ad altre persone per andare a caccia insieme) e alcuni studi suggeriscono persino che contribuisca a migliorare il senso di appartenenza a un luogo, grazie alla mappatura mentale di strade e monumenti.
Quante storie per un gioco
In realtà, l’aspetto più interessante del fenomeno consiste in qualcosa di meno tecnologico: sta tutto nella qualità della narrazione. Pokémon Go ha avuto successo perché ha messo la realtà aumentata al servizio di una buona storia, e non viceversa.
Basta frequentare uno dei tanti think-tank di digital transformation che si tengono di questi tempi per sentire l’entusiasmo delle persone per l’AR: tutti sognano di applicare la realtà aumentata al proprio ambito, dall’insegnamento e alla manutenzione, dalla grande distribuzione all’entertainment. È bene dirlo subito: non è l’AR che trasformerà il nostro business, se non abbiamo niente da dire in prima istanza. Narrative mediocri ispireranno esperienze AR altrettanto mediocri.
In base alla mia esperienza, il primo aspetto a cui prestare attenzione consiste nel fatto che la realtà aumentata è intrinsecamente legata alla percezione visiva: per questo, la nostra storia deve essere visualizzabile. Una sequenza di date, una lista di prodotti di successo o un focus eccessivo su una persona singola, come ad esempio il fondatore dell’azienda, sono sicuramente rappresentabili, ma non favoriscono l’immersione profonda, alla base della connessione emotiva che una buona storia deve avere.
È quindi necessario prima di tutto capire che tipo di emozione si vuole veicolare e quanto essa sia condivisibile con l’utenza: ad esempio, uno stile troppo autocelebrativo può forse emozionare i collaboratori di un’azienda, ma interesserà probabilmente meno ai clienti.
Anche l’AR e la narrazione (uso il termine come sinonimo di storytelling, giusto per capirci) devono quindi essere cliente-centrici. Questo comporta una certa abilità nel prevedere scenari adattativi, perché c’è la possibilità – e bisogna darla – che l’utilizzatore sposti la propria attenzione su aspetti ai quali non avevamo pensato. L’esperienza deve essere personale e non guidata in modo forzato. L’AR non è una pubblicità in 3D: è scoperta, emozione, connessione, e in generale permette di sperimentare ognuna di queste in maniera più forte che i media tradizionali.
Attenzione al fuori gioco
Se quanto sto raccontando in questo momento fosse stato narrato in AR, quel “in maniera più forte” sarebbe stato evidenziato, avrebbe suggerito un campanello d’allarme e questo sarebbe stato chiaro per tutti. Nella bidimensionalità di un testo, invece, ho il compito di sottolinearlo, perché è il rischio numero uno per chi si accinge a produrre un’esperienza AR: emozioni più forti è sinonimo di reazioni altrettanto forti.
Per questo motivo, a colleghi e clienti che partono per la tangente e vogliono a tutti i costi realizzare dei prodotti di realtà virtuale per il proprio business, consiglio sempre di fare un assessment completo dell’impatto che esso avrà sulle varie tipologie di pubblico e di creare degli scenari possibili.
E man mano che il progetto avanza, pur non essendo io stesso ossessionato dai KPI’s a tutti i costi, credo che in questo caso sia utile tenere d’occhio gli indicatori per misurare l’efficacia dell’intervento, e solo in seguito decidere come e se continuare l’avventura.
Prima di investire nella produzione di uno strumento di AR, questi presupposti sono fondamentali.
Non per niente, una scuola guida utilizza le Fiat Punto e le Toyota Yaris per i corsi di pratica dei neo-guidatori.
Non certo le Ferrari.
Cosa ne pensi?
All’età di tre anni ho deciso di diventare vegetariano; in seconda elementare, la maestra ha convocato i miei genitori perché “non era normale” che un bambino conoscesse tutti i nomi dei funghi in latino; a 13 anni ho amato per la prima volta senza sapere che non era amore; a 15 ho smesso di fare decathlon perché odiavo la competizione; ancora minorenne, sono stato processato da una corte marziale. A 20 anni mi sono sposato e a 23 ho divorziato; a 25 anni dirigevo una start-up che ho fatto fallire; a 29 ho avuto la meningite, sono morto ma non ho saputo restarlo. A 35 anni ho vissuto una relazione poliamorista e sono diventato padre di figli di altri. A 42 mi sono licenziato da un posto fisso, statale e ben pagato per fondare l’Agenzia per il Cambiamento Purple&People e la sua rivista Purpletude. A parte questo, ho 20 anni di esperienza nelle risorse umane, ho studiato a Ginevra, Singapore e Los Angeles, ho un master in comunicazione e uno in digital transformation e ho tenuto ruoli manageriali in varie aziende e in quattro lingue diverse: l’ONG svizzera, la multinazionale francese, le società americane quotate in borsa, la non-profit parastatale. Mi occupo soprattutto di comunicazione del cambiamento, di organizzazioni aziendali alternative e di gestione della diversità – e scrivo solo di cose che conosco, che ho implementato o che ho vissuto.