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Raccontami una Storia, possibilmente la Tua

Raccontami una Storia, possibilmente la Tua

Subisco il fascino della carta.
Pur avendo adottato il mio primo lettore Kindle quando ancora non esisteva una Amazon italiana, facendolo arrivare dagli USA, amo la carta.

Il mio amore è stato messo a dura prova da un’alluvione: riesci ad immaginarlo? quattro giorni passati a pompare acqua fuori dal garage e poi l’agonia di gettare centinaia e centinaia di volumi, accumulati in qualche decennio, ognuno con il suo carico di ricordi appiccicato tra le pagine.
Per qualche anno non sono più riuscito a comprare un libro cartaceo.
Ho compensato contornandomi di taccuini, quaderni, agende: ogni supporto sul quale scarabocchiare la mia esistenza interiore.

Anche sul web accade lo stesso: più che condividere contenuti altrui, quella che tecnicamente si chiama Content Curation, ho sempre preferito produrre i miei.
Amo leggere. Amo scrivere.
Eppure questo foglio bianco davanti sembra spesso una muraglia insuperabile: ho i miei Vopos[1] interni, pronti a vanificare ogni tentativo, ogni idea troppo impegnativa, troppo profonda; non devo oltrepassare quel limite: i miei pensieri non sono degni di finire su carta.

Queste resistenze diventano fortissime quando il tema che mi preme sviluppare è troppo intimo, troppo personale, riguarda chi amo.
Mi sembra di sfruttare gli affetti per conquistare attenzione.

Ma proviamo a immaginare come sarebbero le cose se accettassi la mia Vanità, la voglia di essere al centro dell’interesse.
Nell’ultimo anno, oltre agli articoli pubblicati qui su Purpletude e sui miei blog, il grosso dei miei contenuti hanno inondato LinkedIn.

Ho affrontato tanti temi. In particolare ho provato a raccontare le sensazioni e le esperienze di un ultracinquantenne alle prese con un Mondo del Lavoro che cambia.
Alcuni post, alcuni articoli, hanno avuto un discreto successo ed il numero delle persone con cui interagisco è lentamente aumentato, fino quasi a triplicarsi.

Non sarebbe giusto, quindi, dire che ciò che ho scritto delle mie esperienze lavorative, delle mi osservazioni, dei miei progetti, non abbia trovato un terreno fertile.
Eppure…

Eppure tutto questo è sempre finito su carta in maniera troppo astratta, troppo distaccata, a giudicare da quali sono stati i post accolti con più entusiasmo.
Sì, perché, nonostante il grande successo del mantra “LinkedIn non è Facebook”, siamo Persone, sull’una e sull’altra piattaforma, e quando riusciamo a sfuggire dall’aura di seriosità che pervade ogni discorso relativo al lavoro, ciò che abbiamo dentro dilaga: l’emozione pervade ogni commento.

È emozione l’ilarità con cui elenchiamo tutti i tormentoni che circolano sulla piattaforma.
È emozione l’allegria con cui raccontiamo sguardi, odori, sapori dei nostri incontri per fare rete, per conoscerci.
È emozione l’entusiasmo con cui accogliamo l’inizio di ogni progetto che ci faccia rinascere la Speranza in un Mondo Migliore (è trito e ritrito? dai: dillo ad alta voce che non vorresti un Mondo Migliore! Ti sfido!).
È emozione l’affetto con cui accogliamo ogni post che parli delle nostre figlie e dei nostri figli, dei loro traguardi, delle piccole e grandi Gioie e Dolori.
È emozione il rimpianto con cui ricordiamo chi non c’è più (hai mai riflettuto su ciò che provi quando capiti sul profilo di una persona che ha fatto il grande salto? ti sei mai chiest* cosa resti di tutta la nostra esistenza virtuale dopo la Morte, di quante lacrime postume spargiamo quando ci imbattiamo in QUEI profili).

Non sarebbe bello lasciare alla porta i nostri imbarazzi e mostrarci per quello che siamo, Persone con una Vita Interiore, quando scriviamo di noi e per noi sui Social Network?

Facciamo un gran parlare dell’importanza crescente della Relazione in ogni attività lavorativa e tentiamo di lasciare fuori ogni Emozione, il succo dell’entrare in Relazione, quando scriviamo, quando ci mostriamo al mondo.

È terapeutico scoprire quanta capacità abbiamo di rispecchiarci, di immedesimarci, con quegli spiragli di Mondo Interiore che ogni tanto lasciamo intravedere.

E allora sì, poco importa se la molla sia la Vanità o la Verità: ho voglia di continuare a lasciar trasparire da ciò che scrivo il mio Paesaggio Interiore, con le sue contraddizioni, le sue nebbie, le sue piccolezze, perché voglio rispecchiarmi nel tuo, nei tuoi Dubbi, nelle tue Paure, nell’enorme Impegno che investi per progredire, per andare avanti, per riempire di Significato ogni gesto.

Alla fine è questo che voglio leggere: Umanità, non Perfezione, ma Umanità, densa di Difetti e di Amore.
Anche quando parlo di Lavoro.

Perché non voglio mai dimenticare, in una riunione di lavoro, in una Negoziazione, che chi ho di fronte, dietro la maschera dettata dal Ruolo, è una persona, capace di emozionarsi quando parlo di Avventure, di Amicizie, di Paternità, se solo mi do il permesso di farlo.

 

[1] Per te che sei troppo giovane per ricordarli, i Vopos, la VolksPolizei, la Polizia Popolare della Germania Est, erano messi a guardia del Muro di Berlino, per evitare le fughe verso Ovest

[Nota dell’Editore: e se sei tanto ma tanto giovane, devi sapere che fino al 1989 l’Europa era divisa in due: l’Est composto dai Paesi del Patto di Varsavia, che ruotava intorno all’allora Unione Sovietica – i Russi di oggi, più o meno – e l’Ovest, che aveva come riferimento la NATO e gli Stati Uniti in generale. La Germania era divisa in due Paesi differenti, e Berlino era separata da un muro fisico e invalicabile: l’Est da una parte, l’Ovest dall’altra].

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