All’età di tre anni ho deciso di diventare vegetariano; in…
Ero a cena con amici di amici che non avevo mai incontrato prima e, nel bel mezzo delle conversazioni di circostanza che di solito aiutano a rompere il ghiaccio, ho provato l’ebrezza di vedere l’orrore e il disgusto nei loro occhi quando mi hanno chiesto che lavoro facevo.
“Che brutto. Come fai a dormire di notte?”
Wow. D’accordo.
Devo ammettere che, leggendo i commenti di molte persone su LinkedIn, avevo capito che l’HR non è il mestiere che una madre sogna per i propri figli*… ma davvero la mia professione gode di questa fama sinistra? E perché tanto odio?
Tanto per cominciare, a mio avviso, si fa una amalgama pericolosa tra Recruiter di agenzia e HR aziendale. E qui gli stereotipi si accumulano. È utile anche per chi cerca lavoro fare un passo indietro e capirne le differenze. Vediamo quali sono.
Il Recruiter d’agenzia
Le agenzie (interinali e non) sono considerate il male per diverse ragioni, ma prima fra tutte il fatto che sembrano trarre vantaggio dalla disperazione altrui.
Le persone che lavorano per le agenzie hanno fama di essere arroganti, invadenti e finalizzati a una sola cosa: la commissione che guadagneranno nel momento in cui l’azienda cliente assumerà il loro candidato. Per questo motivo, valorizzano una sola persona e buttano nella spazzatura tutti gli altri.
Cosa c’è di vero?
L’ambiente di lavoro di un recruiter d’agenzia è molto competitivo: oltre a dover selezionare il personale, si trova spesso in prima linea nel procacciare i clienti (ovvero le aziende). Si tratta quindi di un mestiere più orientato alla vendita.
Inoltre, si ritrovano a dover selezionare del personale anche in ambiti professionali che non conoscono molto bene: il candidato potrà avere l’impressione di essere “giudicato” da uno che non capisce nulla del suo lavoro (e a volte è così).
Qual è l’aspetto positivo?
In generale sono persone che gestiscono molti clienti e vedono moltissimi candidati: questo dà loro una visione abbastanza precisa (e a volte disincantata) del mercato del lavoro. Onestamente, se un recruiter d’agenzia prende il tempo di darvi un consiglio, io lo ascolterei (ad esempio su un cambiamento da fare al vostro CV).
Inoltre, se vi prendono in simpatia e/o considerano che il vostro profilo sia interessante, vi contatteranno spesso, per ogni posizione che si apre.
L’in-house recruiter (HR aziendale)
A partire da una certa dimensione, le aziende hanno un servizio di selezione del personale interno. Gente come me, per intenderci, che magari non fa solo selezione ma ha anche altre mansioni HR.
Gli HR aziendali sono conosciuti per essere pigri, senza nessun senso dell’urgenza e contenti di aver messo i piedi al caldo, fuggendo dalle agenzie di selezione interinale dove si lavora davvero. La gente li odia per gli stessi motivi per cui odia i recruiter, ma in più perché spesso si occupano anche di licenziamenti. Ci riconoscerete facilmente, perché abbiamo un solo occhio e denti affilati…
Cosa c’è di vero?
I denti affilati, metaforicamente, spesso ce li hanno, perché per sopravvivere in azienda ci vuole parecchio senso politico e anche un po’ di capacità di muoversi. È anche vero che possono occuparsi di licenziamenti, ma spesso si occupano anche di formazione, sviluppo dei talenti, e di tante altre attività più valorizzanti.
Qual è l’aspetto positivo?
Conoscono l’azienda e conoscono il business, anche tecnicamente. Ciononostante preferiranno sempre lasciare alla linea il compito di verificare le competenze tecniche, e si concentreranno più che altro sulle competenze personali del candidato.
Per le stesse ragioni, hanno una visione di insieme dei percorsi di carriera a corto e medio termine e potrebbero pensare a un’altra opportunità mentre vi intervistano per un lavoro diverso. Mi è capitato di assumere qualcun altro e poi, dopo alcune settimane, richiamare un candidato che mi era piaciuto per proporre un’altra posizione che, nel momento del colloquio, non era disponibile.
*e per chi se lo domandasse, pare che il mestiere dei sogni per i propri figli, in Italia, sia il calciatore per i maschietti e la velina per le femminucce. Ecco.
Cosa ne pensi?
All’età di tre anni ho deciso di diventare vegetariano; in seconda elementare, la maestra ha convocato i miei genitori perché “non era normale” che un bambino conoscesse tutti i nomi dei funghi in latino; a 13 anni ho amato per la prima volta senza sapere che non era amore; a 15 ho smesso di fare decathlon perché odiavo la competizione; ancora minorenne, sono stato processato da una corte marziale. A 20 anni mi sono sposato e a 23 ho divorziato; a 25 anni dirigevo una start-up che ho fatto fallire; a 29 ho avuto la meningite, sono morto ma non ho saputo restarlo. A 35 anni ho vissuto una relazione poliamorista e sono diventato padre di figli di altri. A 42 mi sono licenziato da un posto fisso, statale e ben pagato per fondare l’Agenzia per il Cambiamento Purple&People e la sua rivista Purpletude. A parte questo, ho 20 anni di esperienza nelle risorse umane, ho studiato a Ginevra, Singapore e Los Angeles, ho un master in comunicazione e uno in digital transformation e ho tenuto ruoli manageriali in varie aziende e in quattro lingue diverse: l’ONG svizzera, la multinazionale francese, le società americane quotate in borsa, la non-profit parastatale. Mi occupo soprattutto di comunicazione del cambiamento, di organizzazioni aziendali alternative e di gestione della diversità – e scrivo solo di cose che conosco, che ho implementato o che ho vissuto.