All’età di tre anni ho deciso di diventare vegetariano; in…
I guru della innovazione mettono in guardia le aziende: o create le condizioni per il telelavoro o morirete male. Concordo con la previsione ma non con l’entusiasmo: il telelavoro presenta un problema di cui praticamente non si parla mai, ma che potrebbe avere un effetto devastante sulla vita di milioni di famiglie.
Perché ora?
Durante la pandemia molti di noi hanno dovuto lavorare da casa. Dopo qualche aggiustamento, ci si è resi conto che, uno, funzionava lo stesso, e due, non era poi così male.
Secondo uno studio canadese, il 44% dei mestieri può essere svolto in remote working. E ora, sempre grazie al Covid-19, sappiamo che anche il nostro lavoro rientra in quella percentuale.
La pressione sul business e da parte dei collaboratori per la ricerca di un migliore equilibrio vita-lavoro ha aperto il dibattito. Ora le aziende ci stanno pensando seriamente – con parecchio ritardo rispetto ai proclami da employer branding, ma tant’è, meglio tardi che mai.
Chi ci guadagna?
In una prima fase, ci guadagneranno i lavoratori: saranno ancora pagati come se lavorassero in una grande città, ma non avranno più le spese legate al tragitto casa-lavoro.
Inoltre, risparmieranno in media un’ora al giorno (che è la media pro capite in Italia per gli spostamenti di lavoro). Su 220 giorni lavorativi annuali, stiamo parlando dell’equivalente di un mese di ferie.
A questo si aggiunge la richiesta sempre più frequente che il datore di lavoro contribuisca ai costi dell’affitto. Costi che, tra l’altro, tenderanno ad aumentare dove oggi sono più bassi, ovvero in periferia. Il mercato immobiliare di Londra ne è una esemplificazione da manuale: con l’adozione sempre più comune del telelavoro (telecommuting, come lo chiamano lì), si è ampliata l’area di valore della proprietà: per trovare una casa allo stesso prezzo, bisogna ora fare 30-40 minuti di pendolarismo in più.
L’incognita
Tuttavia questa situazione può degenerare piuttosto rapidamente: se togliamo dall’equazione il luogo fisico in cui chiediamo al collaboratore di recarsi ogni giorno (l’ufficio), non abbiamo più ragione di assumere localmente.
Avete presente ciò è che è successo per i call center? Ecco, potrebbe capitare anche al vostro lavoro. La globalizzazione ha permesso di delocalizzare la produzione verso paesi in cui la manodopera costava meno. Il lavoro a distanza farà lo stesso con le aziende dei servizi.
I rischi della globalizzazione
I Paesi dell’estremo oriente, come la Cina, il Vietnam ma anche l’India e il Bangladesh, hanno beneficiato della globalizzazione: sono stati creati milioni di posti di lavoro che, con gli anni e con la sempre maggiore sensibilità dei consumatori, sono divenuti più o meno accettabili in termini di sfruttamento.
Paesi come l’Italia, la Francia e gli Stati Uniti, invece, hanno visto evaporare milioni di posti di lavoro, sotto pretesto che le posizioni «di qualità» rimanessero comunque nel primo mondo.
Sappiamo che non è sempre stato così e che interi stabilimenti produttivi sono stati chiusi e delocalizzati, management compreso.
Gli stessi rischi, se non prestiamo attenzione, li affronteremo con i mestieri toccati dal telelavoro: abbiamo appena innescato dei meccanismi che porteranno, di fatto, all’esternalizzazione del 44% delle professioni.
Il confine esteso
L’Italia ha un vantaggio competitivo che Paesi come la Gran Bretagna o la Spagna non hanno: la barriera linguistica.
Spostare al di fuori dei confini nazionali la produzione di una cucina è più semplice che esternalizzare in Cina un servizio bancario.
Tuttavia, come è già successo per i call center, la tendenza potrebbe essere quella di incoraggiare le persone a lavorare in un altro Paese: quante aziende hanno spostato in massa giovani laureati a Barcellona o a Dublino?
Ora lo spostamento fisico potrebbe non essere più necessario, ma contrattualmente il ragazzo che vive a Forlì potrebbe lavorare per un’azienda irlandese e magari, alla fine, trovare più economico (e/o piacevole) trasferirsi in Tailandia.
La regola sarà quasi sempre di tipo economico: le persone si spostavano nelle città per trovare lavoro, ora si sposteranno verso i Paesi in via di sviluppo per godere di un potere d’acquisto che non avrebbero in Italia.
Un mercato più competitivo
La rivoluzione non è quindi solo digitale ed economica: è prima di tutto sociale.
Il telelavoro cambierà piccole cose che faranno leva su meccanismi complessi che daranno adito a grandi, enormi cambiamenti.
Se da una parte l’equilibrio vita-lavoro potrebbe uscirne rafforzato, l’ampiezza del bacino di reclutamento, virtualmente estensibile a tutto il mondo, rischia di creare una maggiore concorrenza tra le persone e quindi, sul lungo termine, portare alla fragilizzazione dei diritti dei lavoratori.
È lo stesso fenomeno di base che spiega perché la badante di vostra nonna sia ucraina e non italiana.
Cosa ne pensi?
All’età di tre anni ho deciso di diventare vegetariano; in seconda elementare, la maestra ha convocato i miei genitori perché “non era normale” che un bambino conoscesse tutti i nomi dei funghi in latino; a 13 anni ho amato per la prima volta senza sapere che non era amore; a 15 ho smesso di fare decathlon perché odiavo la competizione; ancora minorenne, sono stato processato da una corte marziale. A 20 anni mi sono sposato e a 23 ho divorziato; a 25 anni dirigevo una start-up che ho fatto fallire; a 29 ho avuto la meningite, sono morto ma non ho saputo restarlo. A 35 anni ho vissuto una relazione poliamorista e sono diventato padre di figli di altri. A 42 mi sono licenziato da un posto fisso, statale e ben pagato per fondare l’Agenzia per il Cambiamento Purple&People e la sua rivista Purpletude. A parte questo, ho 20 anni di esperienza nelle risorse umane, ho studiato a Ginevra, Singapore e Los Angeles, ho un master in comunicazione e uno in digital transformation e ho tenuto ruoli manageriali in varie aziende e in quattro lingue diverse: l’ONG svizzera, la multinazionale francese, le società americane quotate in borsa, la non-profit parastatale. Mi occupo soprattutto di comunicazione del cambiamento, di organizzazioni aziendali alternative e di gestione della diversità – e scrivo solo di cose che conosco, che ho implementato o che ho vissuto.
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