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[interludio tre] Odio Cesare Cremonini

[interludio tre] Odio Cesare Cremonini

Mi aspettavo che mi sorridesse freddo e mi dicesse semplicemente:
– Benissimo, allora compili il form per le dimissioni.

Invece no.
Sembrava un bambino, stupito, un po’ triste ma ancora speranzoso. Restò con la bocca aperta per non so quanto e io non sapevo più che dire.
Notai pure della polvere galleggiare sopra la sua scrivania. Un’altra cosa che non mi sarei mai aspettata di trovare lì, in quell’ufficio: polvere.

Era stato il mio capo da anni ma solo allora mi resi conto che non lo conoscevo per nulla. Non sapevo niente di lui. Niente di vero, almeno. Si dicevano le solite cose e alcune, segretamente, un po’ mi eccitavano. Ma, in realtà, che ne sapevo, io, appunto?

– Le hanno fatto un’altra offerta?
– No, gliel’ho detto. Voglio solo più tempo per me.
– Perché se le hanno fatto un’altra offerta, me lo dica, per favore. Proverò a farle cambiare idea o, almeno, mi piacerebbe presentarla al meglio al suo futuro datore di lavoro. Non gliel’ho mai detto ma,
– Non ho nessuna offerta,
– E se lavorasse da casa?
– Da casa?
– Sì. Per favore, il tempo di preavviso, almeno, lo impieghi così, lavorando da casa. Lei vede come si trova e io proverò in tutti i modi che mi sono possibili a farla restare.

Ripeto, mi aspettavo che mi dicesse solo di compilare un form online.
Mi ripresi, smisi di guardare la polvere ormai sul piano della scrivania e lo guardai negli occhi.
– D’accordo.

Mi salutò sollevato, mentre io non sapevo se sentirmi vittoriosa o sconfitta. Volevo licenziarmi e non c’ero riuscita ma tutto mi sarei aspettata tranne quel risultato.

Gli altri miei propositi adesso erano: rompere il tv sulla testa di mio marito fin quando non si sarebbe alzato da quel divano odioso e saremmo andati fuori a cena, in albergo o anche solo in terrazza a svegliare quelli dell’ultimo piano; poi dovevo bruciare vivo il mio dentista, e mi restava da decidere se solo lui o tutto lo studio, l’assistente e chissà chi altro; infine, volevo imparare finalmente l’Ikebana.

Anche continuando a lavorare, facendolo da casa, il tempo per l’Ikebana lo avrei avuto, no? E se portassi anche la palestra in casa? Come si chiama quell’app di Yoga? Alo qualcosa.

Intanto svuotai il mio ufficio – era un casino ma anche quello del capo aveva polvere – e me ne andai senza dare spiegazioni a nessuno ma solo dicendo che non era successo nulla di che.

In macchina, scrissi a mio marito di prendere lui Rebecca a scuola.
Poi, gli riscrissi di non fare nulla, di starsene dov’era e dissi a mia figlia di tornarsene a piedi, col bus, con qualcuno, come le pareva.

Nel frattempo ero già arrivata al distributore di benzina. Mentre mi servivo da sola, l’autoradio di una signora dietro di me diffondeva Cesare Cremonini. Io odio Cesare Cremonini! Lo detesto. Ma perché deve cantare come se stesse svelando verità assolute? Non fa che dire cretinate senza senso! Però mi fece ripensare al mio dentista e chiesi al benzinaio se avesse un bidone o qualcosa per mettervi dentro della benzina. Presi la ricevuta del bancomat e me ne andai.

– Pronto. Sei già uscita da scuola?
– No, c’è ricreazione ancora. Perché vuoi che torni da sola, che succede?
– Niente. Io ho sempre sognato di tornare da scuola da sola.
– Va bene…
– Non ti va? Se vuoi, ti prendo.
– No, no. Torno a piedi. Quanto ci posso mettere?
– Venti minuti, mezzora,
– Mezzora, dai. In mezzora sono a casa.
– D’accordo.
– Grazie!

Un po’ mi commossi per quel grazie – non me l’aspettavo – e sorrisi. Dannazione, avevo sbagliato strada! O meglio, era quella con meno traffico ma da lì, per parcheggiare, sarei dovuta tornare indietro.
Me ne fregai delle due strisce bianche a terra e girai comunque a sinistra. Parcheggiai sotto quel B&B che non ricordo mai come si chiama. Quello bellissimo dove dicevo sempre a mio marito di andare a dormire dopo aver mangiato al Marina del Nettuno.

– È troppo caro,
– Ma che? Il B&B?
– Anche, ma dicevo il Marina del Nettuno. E non si mangia nulla.
– Ci sei mai andato?
– No, ma è gourmet.
– E allora?
– Sai che porzioni
– Sono cavolate. Quando mai mangiamo assai? Vuoi mangiare, sabato andiamo lì e domenica a pranzo a Montalbano.
– Non lo so,

Io sì, ora lo sapevo. Volevo andarci, in quel ristorante, e delle porzioni non me ne fregava nulla. Chi diavolo ti fa restare con la fame, dai? È assurdo. Sono solo scuse. Intanto aprii il bagagliaio e misi il bidone di benzina in una busta di un negozio d’abbigliamento che avevo in macchina, chiusi e andai a citofonare al dentista.

Questa volta non mi fece attendere pressoché nulla, forse anche lui si era scocciato di far finta di avere clienti.
– Dottoressa, che succede?
– Quei due denti dove mi ha tolto lo smalto,
– Glielo ripeto, non sono stato io.
– Certo. Ma mi fanno male.
– Si sieda che diamo un’occhiata.

Fortunatamente c’era solo lui. Mentre si voltò verso il piano per prendere guanti e mascherina, svitai il tappo del bidone e gli buttai tutta la benzina sulla testa. Fece un piccolo strillo e si voltò di scatto.
– Ha un accendino? Io non c’avevo pensato, in effetti.
– …
– Ascolti. Sa che le dico, scelga lei. Mi ha sempre detto che ho dei denti sani e perfetti ma non vuole ammettere che è stato lei a togliermi lo smalto dagli incisivi inferiori.
– Aveva macchie di liquirizia, dottoressa, la prego,
– E me le voleva togliere con l’ultrasuoni?!
– …
– Perché sta piangendo? Io ora me ne vado, tanto accendini non ne ho. Non fumo. – — Lei?
– No,
– Non fumava sigari? Allora un accendino lo troverà. Faccia quello che crede. Incompetente!

Me ne resi conto appena mi accorsi di non aver pensato all’accendino: non l’avrei mai perdonato, nemmeno dopo avergli dato fuoco. Tanto valeva lasciarlo così com’era, zuppo di benzina. Gli lasciai pure la busta di quel negozio e me ne andai.

Mentre uscivo da quel palazzo, una parte di me si chiese che cosa mi fosse successo. Una settimana fa, anzi, fino proprio a quella mattina, volevo licenziarmi ma forse mi era andata meglio; volevo bruciare il mio dentista ma almeno mi ero risparmiata la galera; e l’Ikebana? Ora avevo voglia di concentrarmi di più nello Yoga.

Non andai subito alla macchina ma attraversai la strada e camminai verso il mare. In qualche modo, mi tornò alla mente il mio capo e capii che non era proprio lui a eccitarmi, quando sentivo quelle storie. Così chiamai la sua segretaria.

– Sono di nuovo io,
– Dottoressa! Il direttore sperava avrebbe chiamato. Un attimo solo,
– No, no. Non chiamavo per lui.
– Ah. Mi dica?
– Le andrebbe di uscire?
– A me, dice,
– Sì.
– Uscire, in che senso?
– Ancora non so bene nemmeno io, in che senso. Ma mi andrebbe tanto.

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