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A pesca di sardine: Piccolo vademecum di comunicazione politica

A pesca di sardine: Piccolo vademecum di comunicazione politica

sardine in piazza

Sì, lo confesso. C’ero anch’io. Sono andato in piazza con le sardine perché ero curioso di vedere che faccia avessero e, sotto sotto, di capire se nel banco c’era spazio per me.

Hai presente quei giochi da lattanti, quelli in cui devi inserire un cubo in un foro cubico, una sfera in un foro sferico e così via? Ecco, in passato ho provato a infilarmi dappertutto senza successo: non mi restava che vedere se la mia forma combaciasse almeno con quella di una sardina.

Muri e sardine

La mia città è piccola e circondata da un muro.
Un muro così ampio e alto che se ti sporgi a guardare giù rischi di cadere e ammazzarti. Qualche volta capita, soprattutto a chi non è del luogo, e allora tocca mettere le transenne sugli spalti anche se a noi sembra la cosa più stupida del mondo. Non vedi che è un muro? Non sai che sporgersi è pericoloso?
Ha più di cinquecento anni quel muro, e me lo ritrovo nel sangue. Ecco perché mi sono detto che, se le sardine avessero superato la prova del muro, sarei dovuto andare con loro.

E alla fine è successo. Sono andato in piazza con le sardine. Ma, lo ammetto, ci sono andato soprattutto come uomo di marketing; certi meccanismi li conosco e volevo grattare la vernice per vedere che cosa c’era sotto.

In piazza con le sardine

sardine in piazza

All’ora del tè ero con loro, puntualissimo grazie al reminder dell’evento su Facebook.
In un brusio gentile, piuttosto insolito per una manifestazione di piazza, già si levavano i primi canti da sotto la facciata del duomo. I miei neuroni specchio hanno riconosciuto prima di me odore di giovinezza, di chitarre al catechismo, di cose semplici e buone che non ricordavo.

Niente bandiere, solo qualche piccolo pesce in cartone o altri materiali di recupero, anche luminosi, a galleggiare mollemente sulle teste di tutti.

Tre gradini sopra, la porta aperta della cattedrale; cosa davvero insolita per una manifestazione che puzza di sinistra in quella che chiamano la città dalle cento chiese. Spalancata, ma senza che nessuno entrasse. Da un lato la torre austera del campanile, il segreto del labirinto inciso sulla pietra e i palazzi del potere; dall’altro il portone aperto. Un assenso silenzioso, un tocco caldo al cuore anche se non credi; essere i benvenuti è rassicurante pure per agnostici e atei.

Sardine, salmoni o tonni?

Ci ho messo poco a capire che le sardine non hanno saltato il muro, ci sono passate sotto. Sono arrivate dai fossi e dalle condotte, sono risalite in superfice dai tombini.

Qualcuno, al microfono, le ha paragonate a salmoni che balzano controcorrente dando enfasi a un improbabile essere fuori dal coro. Mi è parso, invece, che queste emergessero senza attriti da un reflusso diffuso, portate da una corrente silenziosa ma forte.

Non c’erano solo adolescenti e giovani: tanto al centro quanti ai margini ho visto donne e uomini maturi. C’erano famiglie e bambini che giocavano come in un giorno di festa qualsiasi. Ho incontrato persone che non vedevo da tempo. Professori e compagni di banco del liceo, anziani con i quali condividevo sale di biblioteche e circoli di lettura, giovani imprenditori che non mi aspettavo di trovare.

Ho chiesto perché fossero lì, che cosa stessero cercando in mezzo alla folla, se si aspettavano altro.
Ho raccolto tante confidenze come raramente accade: c’era voglia di raccontarsi in quella piazza, di lasciare a casa la maschera. Un banco di sardine tenere come quel celebre tonno, che si taglia con un grissino.

E questo è ciò che ho capito.

Una sardina è solo una sardina

Davanti a me duemila persone che non manifestavano da decenni. Duemila sono tante per questa mia piccola città murata. La maggior parte non aveva mai manifestato in vita sua.

A dire il vero, non stavano manifestando nemmeno quella sera: niente slogan né proclami. Niente vessilli se non il loro “manifesto”: s come solidarietà, a come accoglienza, r come rispetto, d come diritti umani, i come intelligenza, n come non violenza, a come antifascismo.

Letto davanti a una chiesa, pensi subito al Vangelo.

Al microfono, un ragazzo rom legge una poesia nella sua lingua a me incomprensibile e poi la traduce in italiano. Parla di fatti comuni a ogni latitudine, che tutti abbiamo vissuto anche solo nei ricordi dei nonni: parla delle violenze di guerre che subisci e della forza per reagire che non si sa da dove esca. Altri dopo di lui parlano di omofobia e razzismo e poi di accoglienza, di diversità come ricchezza.

Sembra il ritrovo di una folla scampata a un terremoto, accorsa in un punto di raccolta dello spirito fuggendo da crolli e distruzione. Una folla che si riconosce miracolosamente viva negli occhi degli altri, e tanto le basta: riconoscersi.

Questa cosa di essere insieme, di esserci davvero, di esserci e basta, questa cosa di far sentire agli altri che ci sei con la fisicità del tuo corpo, questa cosa di non sentirsi più soli semplicemente stando fermi e in silenzio in mezzo a tutti fa venire la pelle d’oca e gli occhi lucidi.

Una sardina non è mai sola

Le sardine non hanno bisogno di niente. Niente patti di palazzo né slogan acchiappa voti, niente uomini forti né segretari. Si muovono compatte, spinte dall’irrefrenabile voglia di non essere più sole. Migrano via dalle divisioni, da tutto ciò che per anni ha tracciato muri e solchi, da qualsiasi cosa ci abbia allontanati gli uni dagli altri.

C’è chi solo ci è diventato e chi invece ci è nato: la capisci in un attimo la differenza, se li guardi a uno a uno negli occhi. E adesso sono tutti lì, serrati in banco, e non vogliono altro che comunicare e condividere la propria presenza, fondersi agli altri, sentirsi parte di un qualcosa di grande.

Vengano gli squali, vengano le reti, non potranno far molto. La minuta uguaglianza delle sardine non è l’ideale sbandierato dalla sinistra e quindi facilmente assediabile: è qualcosa di viscerale, è un ritorno a un’umanità nuda che si muove compatta alla ricerca di un territorio pacificato sul quale rifondare una civiltà e, soprattutto, un futuro.

Ha qualcosa di biblico, il silenzio delle sardine in piazza interrotto da canti, musica, poesie e poche grida.

L’internet of politics e la comunicazione negativa

Di conseguenza nasce la loro idea di politica, semplice al limite dell’archetipico ma dannatamente nuova.

È un internet of politics, per dirla con terminologia in voga. Ognuno è una micro-fonte di iniziativa che mette in rete con quella degli altri in modo personale e differenziato. Un’azione politica che, almeno in questa prima fase, si realizza nella mera presenza collettiva e nel movimento compatto via da tutto ciò che è odio, discriminazione e divisione. Siamo agli albori di qualsiasi messaggio politico: le sardine dicono Yes I am, sì sono proprio io, ci sono anch’io e, come semplice individuo in un sistema democratico, rivendico il basilare diritto e potere di influenzare la cosa pubblica lanciando un messaggio.

Un messaggio anni luce lontano dall’uno vale uno di pentastellata memoria perché, esattamente come spiega Alessandro Baricco in The game, i sacerdoti sono al bando e non c’è più gerarchia, neanche quella minima e digitalizzata del M5S. Il digitale c’è, ma per un altro e più semplice motivo: per non restare soli quando non si è più fisicamente con gli altri, per coordinare le operazioni prima di incontrarsi nella prossima piazza e, anche, per discutere e trovare insieme le parole che possano dare un’identità più forte. Chi non capisce questo, difficilmente potrà dialogare con loro.

A definirle e strutturarle basta un logo persino banale, appunto l’iconica figura del più inoffensivo dei pesci, e quei pochi principi che ne sciolgono l’acronimo e ne abbozzano una rudimentale Costituzione.

Proprio così, le sardine stanno vivendo la propria costituente. Sui social ferve il dibattito: discutono sul da farsi per tenersi puri, separati dagli “altri”, compatti e incisivi. I gruppi Facebook sono una fucina di idee, dove non mancano dispute anche accese e i sabotatori fanno puntuali incursioni. Ma buttare benzina sul fuoco non serve, anzi rafforza la loro voce, il loro nascere contro un determinato modo di comunicare e fare politica: più le attacchi più il banco si compatta in un muro letale, possibile che i competitor non l’abbiano capito?

Le sardine si nutrono dei rifiuti con cui i politici e i loro communication manager hanno appestato il web e gli altri media. La comunicazione negativa è il loro nutrimento. La assorbono e la immagazzinano per gonfiare le proprie file. Sono un prodotto tutto contemporaneo: come quei batteri che hanno ormai imparato a metabolizzare la plastica, le sardine digeriscono l’odio e lo convertono in energia. Questa è la loro rivoluzionaria e salvifica novità.

Mattia Santori e il programma delle sardine

Seppure l’intento dichiarato sia di non essere come “loro”, nemmeno ai pesci di piccola taglia è dato di manifestare la propria volontà senza la mediazione di un primus inter pares.

Un “capo sardina” si distingue ormai con chiarezza dal resto del banco e ne ha già assunto l’ufficio più strategico, quello della comunicazione. Di fronte alla folla di piazza San Giovanni a Roma, Mattia Santori tira le fila del movimento (parola pericolosa) e partorisce l’embrione di un programma politico:

  1. Pretendiamo che chi sia stato eletto vada nelle sedi istituzionali a lavorare;
  2. Che chiunque ricopra la carica di ministro comunichi solamente nei canali istituzionali;
  3. Prretendiamo trasparenza nell’uso dei social network;
  4. Pretendiamo che il mondo dell’informazione traduca tutto questo nostro sforzo in messaggi fedeli ai fatti;
  5. Che la violenza venga esclusa dai toni della politica in ogni sua forma. La violenza verbale venga equiparata a quella fisica;
  6. Abrogare il decreto sicurezza.

Parole semplici e chiare. Basta con la violenza sul web, con l’indecenza del dibattito politico, basta al contenuto finalizzato a offendere e dividere; e dunque basta anche al decreto sicurezza, che nasce dalla divisione tra chi è dentro il muro e chi vi bussa da fuori. Quella delle sardine è una battaglia alla cattiva comunicazione, cattiva in senso qualitativo, morale ed etimologico (dal latino captivus cioè ‘prigioniero, incatenato, legato’ e infatti le sardine “non si legano”): la comunicazione della paura.

Guerra al pain

Nel marketing e in politica al tempo dei social network, è diventato frequente il ricorso a una strategia piuttosto rudimentale di comunicazione capace di dialogare (si fa per dire) con le pulsioni pre-razionali dell’essere umano e che, per questo, garantisce risultati sicuri purché applicata con metodo:

  1. Si individua un timore che caratterizza l’audience, il target di riferimento, e lo si traduce in un oggetto, un fatto o meglio una narrazione;
  2. Si sottopone il target a un’esposizione prolungata a questa narrazione, risvegliando in lui la paura che potrebbe accadere qualcosa di negativo e persino di doloroso (da cui l’utilizzo della parola pain, letteralmente “dolore”), alterandone quindi lo stato d’animo;
  3. Superata la barriera del pensiero razionale, si guida più facilmente il target verso le conclusioni e le azioni desiderate, offrendo una soluzione a questa paura attraverso un gain, cioè un “guadagno” capace di riportarlo alla tranquillità e al benessere iniziali.

Una controindicazione tipica di questa strategia è che, pur garantendo ottimi risultati, raramente è conveniente. Come una locomotiva a vapore, per lanciarla a velocità sostenute c’è bisogno di operatori che spalino continuamente narrazioni efficaci nelle viscere del target.

Ovvero è importante esporlo ripetutamente al pain e, una volta fornita la soluzione per guidarlo dove vogliamo, trovare altre paure e altre narrazioni attraverso le quali re-innescare il meccanismo, per continuare a menare l’ascoltatore/lettore/elettore dove vogliamo. Un circolo vizioso poco sostenibile, che si traduce in centinaia di migliaia di euro spesi in sponsorizzate sul web.

La paura è efficace sul momento ma non fidelizza il cliente: il suo effetto svanisce non appena si torna allo stato di quiete, dei suoi benefici non resta memoria. Bene lo sanno i leader protagonisti della cronaca politica italiana degli ultimi anni, che per mantenere costantemente “caldi” gli animi dei propri potenziali elettori restano intrappolati nei toni esasperati da eterna campagna elettorale. La comunicazione del pain funziona quando ci si appresta alle urne o si è all’opposizione, non quando tocca governare sul serio.

Pain al pain: la comunicazione negativa delle sardine

Le sardine hanno subodorato questo meccanismo: sempre più consapevoli degli strumenti digitali, scendono in piazza per dire basta alla strumentalizzazione del loro habitat. Basta ammorbare i social network, basta fomentare odio nei loro luoghi di incontro. Che la politica torni a essere un interlocutore autorevole e un rappresentante degno dei cittadini: uno strumento per costruire e unire, non per distruggere e dividere.

Peccato che Mattia Santori schieri se stesso, e con lui tutte le sardine, contro il linguaggio violento usando egli stesso parole violente. Il predicato di ognuno dei sei punti programmatici di piazza San Giovanni è rappresentato da un verbo che non ammette repliche: pretendiamo.

Una contraddizione? In apparenza sì. Ma sappiamo bene che, quando c’è da lottare, anche il più buono e giusto degli eroi non può fare a meno di menare fendenti: come marketing insegna, è il momento di costruire uno storytelling efficace e quindi un’epica. Si attivano le funzioni di Propp e si sfoderano le spade. Gli eroi scendono in campo, che scorra il sangue.

A pesca di sardine

In termini di marketing, le sardine rappresentano un target dall’enorme potenziale ma poco gestibile. C’è di tutto, lì in mezzo: difficile inquadrarli per sesso, età o classe sociale.

Ci ha provato la Scuola Normale Superiore di Pisa durante la manifestazione di Firenze e il quadro che ne è uscito, pubblicato di recente sulle pagine de La Repubblica, sembra un patchwork dadaista. L’iniziativa è da millennials, e già i marketer sanno quanto sia complesso inquadrare i comportamenti di questa generazione, ma il seguito è trasversale e indifferenziato.

Il legante è dato dalla delusione per la politica attuale (quanta amarezza per la sinistra e il M5S ti confidano…) e dal rifiuto specifico dei relativi meccanismi comunicativi. Nient’altro.

Un po’ come accadde ai tempi dei vaffa days, ma con una differenza sostanziale: l’iniziativa è spontanea e sorge dal basso, non nasce dal sapiente progetto politico di un leader che ha preventivamente analizzato il contesto e sa come trarne vantaggio. Il web sta giungendo a maturazione e, in piena coerenza ai suoi meccanismi, le folle si organizzano autonomamente e si schiariscono la voce per dire a chi dovrebbe guidarli che cosa è il caso di fare.

L’esito dei vaffa days lo conosciamo tutti. A gridare e a menare il can per l’aia, oggi, basta davvero poco: ci sono riusciti egregiamente un cabarettista e uno che aveva strane abitudini come quella di bere l’acqua di fiume da un’ampolla inneggiando a divinità celtiche, solo per citarne un paio.

Stavolta, il bisogno da soddisfare è più chiaro che mai: dare a questi piccoli pesci l’attenzione che meritano e rinnovare in positivo la propria comunicazione, indipendentemente dalla fazione politica. Ascoltare e tornare a proporre, a costruire.

Le sardine sono tante e nutrienti, e hanno una tremenda voglia di futuro. Non portano soluzioni e non dobbiamo aspettarci proposte da loro. Ci offrono molto di più: ci dicono in modo chiaro come possiamo parlargli. Un target che suggerisce anzi grida come vuole essere raggiunto è il sogno di ogni marketer.

Adesso tocca alla politica rispondere: a buon intenditor…

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