All’età di tre anni ho deciso di diventare vegetariano; in…
Prima di internet, le comunicazioni ufficiali venivano inviate in busta paga: quella la ricevevano tutti, per cui era il canale di comunicazione più sicuro e capillare.
Gli annunci importanti, invece, il più delle volte erano dati in plenaria: tutti insieme appassionatamente in luoghi sufficientemente capienti e requisizionati per l’occasione, genere palestre o teatri o palazzetti dello sport. Se l’azienda aveva molte sedi diverse, di solito gli executive facevano il tour nel minor tempo possibile, distribuendosi sul territorio.
Poi le cose si sono fatte più veloci
La tecnologia, e in particolare l’utilizzo della posta elettronica, ha dato un colpo di acceleratore ai ritmi della comunicazione, rendendola oltretutto più immediata: ormai siamo nell’epoca dell’insta-reazione, che ci porta a dare subito il nostro parere. Non ci prendiamo il tempo di assimilare le nuove informazioni, perché quel tempo non ci è più dato: il feedback deve essere quasi istantaneo.
Paradossalmente, è proprio questa facilità nel raggiungere le persone che ha reso obsoleta la comunicazione via email: è troppo facile, troppo comoda, e quindi è diventata un canale abusato.
Oggi il CEO che vuole annunciare una grande acquisizione, lo fa con un comunicato inviato a giornali, azionisti e collaboratori praticamente nello stesso tempo. E può mettere un “fatto” sulla sua check-list.
Questo approccio estremamente top down non dà più i risultati attesi, soprattutto a livello di diffusione: i collaboratori sembrano non essere interessati all’ennesima lunga tiritera inviata nelle loro caselle di posta elettronica.
Cosa significa esattamente top down?
Letteralmente, top down significa “dall’alto verso il basso”. A dipendenza del contesto, può caratterizzare una strategia, o un obiettivo, o persino una modalità di gestione di un progetto.
Graficamente, il concetto di top down è semplice da rappresentare: si tratta di una piramide: c’è una punta (top), apicale e composta da pochi; e c’è una base (bottom), gerarchicamente inferiore e numerosa.
In generale, quando si parla di approccio top down, soprattutto all’interno di un’azienda e soprattutto per quanto riguarda la comunicazione, si intende un modo formale e organizzato di gestire l’informazione.
Fanno parte di questa modalità gli strumenti e i canali tipicamente aziendali, come la newsletter o il volantino allegato alla busta paga.
E la comunicazione bottom up?
Non è esattamente il contrario, ma a livello di movimento dell’informazione lo è: c’è un punto di partenza (bottom) da cui l’informazione risale (up).
Graficamente, potremmo pensare a una freccia in cui la coda è il bottom (la parte bassa), mentre la punta che indica la direzione verso l’altro è l’up.
L’idea della comunicazione bottom up è quella di fare in modo che la base, più concreta e vicina ai problemi quotidiani, faccia risalire le questioni fino alla Direzione, in modo specifico tramite i propri line manager, che dovrebbero agire da nodi di scambio.
Le conversazioni alla macchina del caffè, le chat di lavoro su WhatsApp ma anche le opinioni e i feedback dei collaboratori fanno parte di questo sistema di comunicazione definito anche “informale”.
Per comunicare bisogna stare tra la gente
La maggior parte delle aziende ha compreso che i propri collaboratori vanno motivati e che gli aspetti prettamente retributivi non sono sufficienti per garantire un vero engagement della persona.
In un’ottica di responsabilizzazione e, in fondo, di fiducia, la comunicazione interna non può più limitarsi semplicemente a far scendere regole e direttive attraverso i vari livelli dell’organizzazione (a “cascata”, per riprendere il calco sull’inglese “cascading”).
La comunicazione va gestita a tutti i livelli e in ogni direzione: non solo dall’alto verso il basso, ma soprattutto dal basso verso l’alto e anche lateralmente, tra livelli gerarchici simili ma in ruoli diversi (in molte aziende, soprattutto quelle piuttosto grandi, i dipartimenti sono dei compartimenti a tenuta stagna e non si parlano tra loro).
Per sua stessa natura, la comunicazione non si fa tramite newsletter da dietro una scrivania: le persone devono essere fisicamente (ma anche virtualmente) presenti nella rete di interconnessioni personali e professionali. Devono poter “prendere la temperatura” dell’azienda, nei vari dipartimenti, ed essere in grado di far risalire questi feedback in maniera strutturata e costruttiva, affinché si trasformino in azioni di miglioramento concreto.
Ci sono quindi i professionisti della comunicazione, ma non solo: i line manager, in questa rete, rivestono un importantissimo ruolo di snodo, facendo passare la comunicazione top verso il basso e la comunicazione bottom verso l’alto. Essi sono un po’ tra l’incudine e il martello se vogliamo. E hanno una grande responsabilità, perché possono aprire o chiudere le barriere che bloccheranno o meno il flusso di informazioni utili.
La sfida più grande
La principale difficoltà è data proprio dal facilitatore principale della comunicazione in azienda: la tecnologia.
Le aziende oggigiorno si ritrovano confuse tra due opposti: da una parte, la necessità di rendere certe informazioni reperibili a tutti e quindi di istituzionalizzarle (come ad esempio i regolamenti); dall’altra, il bisogno di capire ciò che succede veramente in azienda, cosa pensano e quali sono i problemi delle persone al fronte, e questo spesso si concretizza tramite strumenti sui quali è quasi impossibile esercitare un controllo.
L’esempio che fa tremare ogni responsabile risorse umane sono i gruppi WhatsApp tra colleghi: finiscono per diventare veri e propri canali di comunicazione aziendale, tramite i quali si organizzano le giornate di lavoro, ci si avverte di un’assenza improvvisa, si ricordano eventi mondani o professionali, per poi finire a scambiarsi documenti di lavoro, fotografie di pazienti, dati sensibili di clienti, password informatiche e molto altro ancora.
Insomma, un incubo a livello legale e di ottemperanza alle numerosissime leggi sul rispetto della privacy e sul trattamento dei dati personali.
Gli strumenti adatti
Ecco quindi, dopo grandi discussioni di budget e di fattibilità con i ragazzi dell’informatica, arrivare la soluzione di una chat interna: Slack, o Microsoft Team, o Flock o altre ancora. Tutti strumenti che faranno fatica a imporsi, per tutta una serie di motivi, ma soprattutto uno: l’esperienza quotidiana di usabilità è più complessa.
Perché un collaboratore dovrebbe installare un’altra app di chat quando WhatsApp funziona benissimo? Solo per una questione di transito di dati sui server americani di Facebook (che è proprietaria del servizio di messaggeria più famoso al mondo)? Quanti collaboratori sentono veramente questo problema?
Alla fine, ognuno di noi vuole poter utilizzare qualcosa di semplice – e cosa c’è di più semplice di un’applicazione che già conosco e che utilizzo nella mia vita privata? Non per niente, Facebook sta cominciando a spingere la versione business della sua piattaforma, dove permette a persone della stessa azienda (che hanno quindi un indirizzo email appartenente allo stesso dominio) di utilizzare una versione semplificata delle loro pagine e della loro chat.
È la lezione che abbiamo imparato da Microsoft: perché per tanti anni non hanno messo in atto un vero controllo delle licenze ed era così facile installare la suite Office gratuitamente? Semplicemente perché se siamo abituati ad utilizzare Excel o Word a casa, sul lavoro vorremo lo stesso software – ed è lì, sulle licenze business, che un’azienda come Microsoft realizza il grosso dei suoi benefici.
I benefici della comunicazione bottom up
Tutto questo sottobosco comunicativo sfugge ai soliti canali top down. Anzi, a volte i responsabili della comunicazione non hanno proprio idea di cosa passi nella mente dei collaboratori e di cosa possa interessare loro. D’altro canto, hanno pochissime metriche a loro disposizione per determinare quali siano gli argomenti importanti: oggi, a dirla tutta, vanno un po’ a naso.
Il problema delle soluzioni spannometriche è che sono spesso autoreferenziali: sulla base dei dati che si hanno, si elaborano delle strategie di comunicazione che raccolgono un certo tipo di dato da un certo tipo di popolazione, che conferma i dati raccolti in precedenza. In pratica, si entra in un vicolo cieco comunicativo, dove la ricchezza e la diversità delle persone e delle professionalità che compongono l’azienda rimangono invisibili.
L’approccio bottom up è veramente necessario, in queste condizioni. Esso include molte varianti, ma sicuramente alcuni suggerimenti dai quali iniziare potrebbero essere i seguenti:
1. Comunicate a quattr’occhi tutte le volte che potete
Solo il 10% del significato di un messaggio è veicolato dalle parole scritte: è importante vedersi in faccia. Se non vi è possibile, utilizzate la videoconferenza.
2. Ricordate che l’informazione può essere distorta
I messaggi sono soggetti a interpretazione e quindi possono essere distorti, semplicemente perché spesso la nostra comprensione delle cose è filtrata da ciò che sappiamo, da ciò che abbiamo vissuto e dai nostri pre-giudizi.
In particolar modo quando il messaggio ha un forte impatto, è necessario pensare a come organizzare un canale di comunicazione a doppio senso: invitare le persone a fare domande, organizzare dei team talk, raccogliere feedback e suggerimenti. È importante non lasciare le persone sole con le loro interpretazioni.
3. Utilizzate media e canali diversi
Inviate e raccogliete informazioni tramite tutti i canali dell’azienda, anche i meno ortodossi, e non solo l’email o gli incontri annuali con i manager.
In una società in cui ho lavorato, che dava molta importanza alla sicurezza degli operai, gli aggiornamenti sugli infortuni e i consigli per evitarli dovevano essere leggibili in 3o secondi ed erano affissi… nei bagni, sopra i pissoir. Difficile non vederli e non leggerli.
4. Incoraggiate i lavori di gruppo interdisciplinari
Le persone, per comunicare, hanno bisogno di conoscersi. In azienda, non significa solo sapere il nome della collega o il suo ruolo, ma significa anche capire cosa fa, concretamente. Molti di noi ignoriamo totalmente le mansioni dei colleghi degli altri dipartimenti. Lavorare insieme, in un team con obiettivi precisi, permette di conoscersi, e la conoscenza facilita la trasmissione di informazione, anche laterale.
Più l’informazione circola, e più sarà facile coglierla.
Cosa ne pensi?
All’età di tre anni ho deciso di diventare vegetariano; in seconda elementare, la maestra ha convocato i miei genitori perché “non era normale” che un bambino conoscesse tutti i nomi dei funghi in latino; a 13 anni ho amato per la prima volta senza sapere che non era amore; a 15 ho smesso di fare decathlon perché odiavo la competizione; ancora minorenne, sono stato processato da una corte marziale. A 20 anni mi sono sposato e a 23 ho divorziato; a 25 anni dirigevo una start-up che ho fatto fallire; a 29 ho avuto la meningite, sono morto ma non ho saputo restarlo. A 35 anni ho vissuto una relazione poliamorista e sono diventato padre di figli di altri. A 42 mi sono licenziato da un posto fisso, statale e ben pagato per fondare l’Agenzia per il Cambiamento Purple&People e la sua rivista Purpletude. A parte questo, ho 20 anni di esperienza nelle risorse umane, ho studiato a Ginevra, Singapore e Los Angeles, ho un master in comunicazione e uno in digital transformation e ho tenuto ruoli manageriali in varie aziende e in quattro lingue diverse: l’ONG svizzera, la multinazionale francese, le società americane quotate in borsa, la non-profit parastatale. Mi occupo soprattutto di comunicazione del cambiamento, di organizzazioni aziendali alternative e di gestione della diversità – e scrivo solo di cose che conosco, che ho implementato o che ho vissuto.