
Sono Consulente, Formatore e Coach. Ma anche podcaster, scrittore, cuoco,…
C’è una parola che in azienda non si dovrebbe mai pronunciare. Ho conosciuto aziende dove le persone non si facevano troppi problemi a dare del negro. Dove le bestemmie erano normali (sono Veneto, in fin dei conti). Dove la discriminazione di genere viene perpetrata con fare quasi orgoglioso, asserendo che una donna non potrebbe mai fare quel lavoro.
Ma ancora non ho conosciuto aziende dove si usasse la parola mobbing, se non con fare sussurrato. Magari parlando di questo o quell’altro collega. Certo, fuori dalle mura aziendali se ne parla. Ne parlano i giornali, se ne parla dall’avvocato, e magari anche dallo psicologo.
Ma dentro l’azienda è una sorta di tabù. Anche negli Uffici Risorse Umane, che in teoria dovrebbero essere i garanti del benessere dei dipendenti.
Insomma, la storia la conosci. Un dipendente, uomo o donna che sia, inizia a vivere abusi da parte del proprio superiore. All’inizio li ignora, si comporta normalmente. Ma con il passare del tempo gli abusi si fanno sempre più aggressivi, violenti, e chi li subisce non sa più come reagire. A un certo punto prende coraggio, e si reca dall’Ufficio Risorse Umane per raccontare la sua storia, ma ecco, appena pronuncia la parola mobbing, ottiene prima sguardi impauriti, poi scettici, quindi sarcastici. Sta tutto nella sua testa, gli viene detto. Quella persona non ha mai avuto denunce di quel tipo. Si tratta di un manager incredibilmente rispettato. E poi, che prove avrebbe di quei presunti abusi?
A un certo punto, incapace di reagire, la persona va da un avvocato per farsi consigliare, che però risponde che è vero, senza prove non può farci nulla. Magari si confida con il proprio partner, o con gli amici, e tutti sono concordi. In quell’azienda non ti rispettano, dovresti andartene, dicono.
Finché a un certo punto cede. Rassegna le proprie dimissioni, ma è una sconfitta, perché così ha fatto il gioco del proprio manager, che voleva allontanarlo fin dal primo momento.
Questa, almeno, è la storia come viene raccontata normalmente dai giornali, ma anche dai film, dalle serie TV. La perfetta retorica del debole che viene oppresso dal più forte. Ma se ti aspetti conforto o simpatia in questo articolo, non la troverai. Perché in ogni storia ci sono sempre almeno due prospettive, e io oggi desidero raccontare quella dell’oppressore.
Immagina ora il manager di poco fa. Da poco promosso alla sua posizione sente il bisogno di asserire il suo potere in un modo talvolta aggressivo, che sente non appartenergli. Ha acquistato una macchina da un sacco di soldi che non gli piace, solo per nascondere a se stesso il fatto che è intimorito dall’idea di dare ordini a qualcuno.
L’azienda non ha investito un euro nella sua formazione per renderlo un manager migliore, e quindi è vincolato a quei pochi meccanismi comunicativi che conosce. Nella sua mente esiste l’idea che se il rispetto non viene dato, allora deve essere forzato in modo anche violento. Naturalmente non la pensa in questi termini. Più che altro qualcosa sulle linee del “il mio è il ruolo del manager, e quindi il rispetto mi è dovuto, altrimenti ci saranno delle conseguenze”.
Salvo poi accorgersi che questo rispetto non è così scontato come credeva. Alla sua comunicazione aggressiva in molti lo ignorano, sfruttando le falle del sistema per fare di testa loro. Magari li minaccia qualche volta, ma loro non si spaventano, e fanno come se non ci fosse. Poi ci sono quelli che lo intimidiscono, così sicuri nella loro posizione, così competenti. Con loro non ci prova nemmeno.
E poi ecco, c’è quell’unica persona che quando lui urla arrossisce e non sa come rispondere. Che reagisce alla sua rabbia con paura. Alla sua aggressione con sottomissione.
Senza nemmeno rendersene conto, inizia a gravitare intorno a questa persona, perché è l’unica che riesce a dargli la sicurezza che brama, e non riesce ad ottenere. E più il tempo passa, più la loro relazione si cristallizza in una dinamica di schiavo e oppressore.
Poi, però, il dipendente fa la sua denuncia all’Ufficio Risorse Umane che squalifica la cosa, e lo fa per un motivo molto semplice: vuole evitare cause legali per l’azienda. Ma questo non significa che ignori l’accaduto. Chiama il manager a colloquio, e hanno una discussione imbarazzata. Il manager nega tutto, ma nei giorni successivi, quando ormai il dipendente ha dato le dimissioni, le voci iniziano a circolare. Pare che se ne sia andato per mobbing. Gli altri colleghi confermano: è sempre stato molto aggressivo. La posizione vacante viene ricoperta da un’altra persona, che però in poco tempo inizia a guardarlo con diffidenza, quasi a cercare il mostro che si nasconde dietro alla maschera del manager. Se prima nessuno era realmente collaborativo, improvvisamente sono tutti deliberatamente ostili. Gestire il team diventa impossibile, e presto il manager viene allontanato dall’azienda, perché non riesce a raggiungere delle performance adeguate alle aspettative.
Come puoi notare, la storia assume tinte diverse quando è raccontata dall’altra prospettiva. Certo, possiamo sempre essere d’accordo sul fatto che alla radice del problema sta la comunicazione aggressiva del manager, ma il fatto stesso che essa sia percepita come mobbing da una sola persona la dice lunga su quanto, in realtà, di fatto l’intento non fosse quello.
Insomma, diciamoci le cose come stanno. Sono sicuro che ci siano dei casi in cui dei manager o delle aziende hanno il deliberato intento di allontanare un collaboratore dall’azienda, e magari non siano nelle condizioni di avviare una procedura di licenziamento (anche se con le nuove regolamentazioni in teoria oggi dovrebbe essere possibile, anche nel settore pubblico). Questo tipo di mobbing è figlio di una cultura in cui il posto fisso è visto in modo religioso come un diritto ineluttabile: se non posso allontanarti dall’azienda, allora ti spingo ad andartene, e questa è una triste realtà della politica economica italiana.
C’è però anche un altro tipo di mobbing, quello che nasce non tanto da un deliberato intento da parte dell’azienda, quanto da una cattiva complementarietà caratteriale tra il manager e il dipendente. E non stupisce come il mobbing di questo secondo tipo sia, in realtà, di gran lunga il più frequente.
Oggi siamo sommersi dalla retorica del debole che deve essere difeso, e del forte che è sempre nella colpa, quando aggredisce il debole, nonostante questi fenomeni relazionali siano stati descritti e studiati in ambito psicologico, ma in modo completamente diverso.
Paul Watzlawick, infatti, parlava di relazione patologicamente complementare, descrivendola come quella che lega la vittima al suo aguzzino, e che si può ritrovare in molte dinamiche, come quella tra moglie sottomessa e marito oppressore (o viceversa, naturalmente). Ma anche il manager e il dipendente che subisce mobbing.
Mi rendo conto che questa sia una lettura poco popolare della realtà, ma è molto chiaro a chi studia i fenomeni comunicativi che le relazioni si fanno sempre (almeno) in due, e l’aguzzino crea la vittima tanto quanto la vittima crea il suo aguzzino.
Se torni alla storia che ho raccontato poco fa, noterai che il manager ha trovato terreno fertile per sfogare il suo carattere solo in una persona, che quindi è responsabile della dinamica tanto quanto lui.
Chiariamoci sui termini: il fatto che ne sia responsabile non significa che l’abbia scelto deliberatamente, bensì che sia stata la sua comunicazione, mal gestita, a influenzare quel comportamento nel manager. Come il non conoscere una legge non è un attenuante nell’infrangerla, così il non gestire la propria comunicazione non è un’attenuante nel subire quella degli altri.
Ma quindi, se subisci del mobbing, come puoi difenderti?
Beh, la fortuna è che esiste uno stratagemma realmente semplice che si può mettere in pratica, ed è quello dell’Uccidere il Serpente con il suo stesso Veleno [Cavalcare la propria tigre; Nardone G.]. Significa usare la stessa aggressività che ci viene rivolta per danneggiare l’aggressore, invece che noi stessi. Che non significa che dobbiamo rispondere alla violenza con altra violenza (quello sarebbe il nostro veleno, non quello del serpente che ci aggredisce), bensì con la sua violenza stessa, in modo subdolo ma potente: ogni volta che riceviamo una critica, o un atto che consideriamo mobbing, dobbiamo ringraziare.
Rispondere, quindi, con una formula del tipo “grazia di questa critica che mi rivolgi, perché mi aiuta a crescere professionalmente”. O anche “grazie per essere sempre così puntiglioso con me, perché senza di te non riuscirei ad essere ciò che sono”. Un ringraziamento come questo spiazza, poiché crea un doppio legame comunicativo: se la persona smette di criticarmi, avrò raggiunto il mio risultato; se continua, sarà con la consapevolezza di aiutarmi, e quindi ai suoi occhi non sarò più vittima, ma risorsa preziosa da far crescere.
Questa è un’arma segreta, che chi subisce mobbing può portare sempre con sé, ma l’effetto straordinario è che quasi mai capita di doverla davvero usare. Sapere di avere questo pugnale nascosto, infatti, è sufficiente per far cambiare atteggiamento. Improvvisamente, chi fino al giorno prima era vittima di mobbing scopre che il suo manager è diventato improvvisamente sensibile ed educato, e non dà occasione alcuna di usare questo stratagemma.
Perché la storia che nessuno racconta sul mobbing è proprio che il vero serpente è quello fatto di paura e risentimento che si porta dietro chi lo subisce, e viene ucciso dal suo stesso veleno, cambiando completamente atteggiamento, smettendo di essere vittima, ma iniziando a diventare preziosa risorsa per l’azienda.
Cosa ne pensi?

Sono Consulente, Formatore e Coach. Ma anche podcaster, scrittore, cuoco, giardiniere, marito e padre. Studio modelli di Comunicazione e Problem Solving, e li uso per aiutare le persone e le aziende a risolvere problemi apparentemente irrisolvibili, o a raggiungere obiettivi incredibilmente sfidanti, che di solito hanno a che fare con la gestione del cambiamento, la leadership, e la negoziazione. Insomma, un po' un Mr. Wolf, senza però tutto quel sangue, rughe e papillon.