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È difficile non essere banali: cosa rende originale un contenuto?

È difficile non essere banali: cosa rende originale un contenuto?

Io ero quello con la camicia.
Estate, un gruppo di amici coi postumi dell’adolescenza. Tatuaggi e magliette in ogni variante cromatica dal rosso Emergency all’animalier Just Cavalli, shorts sdruciti strappati e malmessi ma very casual, e quindi di tendenza. Poi c’ero io, con la mia camicia o al massimo la Lacoste.

Riesci a immaginare qualcosa di più banale?

Giuro, ci ho provato: ho comprato le peggiori magliette. Mi sembrava di avere addosso la pelle del centauro Nesso. Quella che ha stecchito Eracle per intenderci, una veste imbevuta di un veleno così potente da accoppare il più tenace degli eroi.

Non che avessi niente da dimostrare a nessuno, con la mia camicia; per giunta ero pure uno dei più squattrinati della comitiva. Stavo bene così e basta, ma in quel gruppo ero un pugno in un occhio. E, sia pure con garbo, me lo facevano notare. Avevano ragione: io e la mia camicia eravamo banali.

Che significa essere banale?

Me lo domando spesso, oggi.
Con il web il gruppo si è fatto globale e c’è sempre qualcuno più originale di te, pronto a far notare all’universo-mondo tutta la tua banalità: un commento saccente o un repost caustico e il gioco è fatto. Ti distrai un attimo e sei fregato. A quanto pare, sui social network la banalità è una malattia diffusa; se sei di quelli che della comunicazione online hanno fatto un mestiere, non ti invidio affatto. Mala tempora currunt.

In origine, il ban era il villaggio, il feudo, la comunità. Ciò che si annunciava a tutti era il bando, e banale era quello che diventava dominio del villaggio. Al livello popolare, conosciuto e condiviso quindi etimologicamente “banale”, si contrapponeva la dignitas della bocca o della penna dal quale il bando proveniva: il signore locale, il conte o il marchese, il messo reale, il sovrano stesso o altre figure di tale schiatta. “Originale” era ciò che proveniva dall’alto, dalla fonte insignita dell’auctoritas, e che inevitabilmente si trasformava in “banale” non appena diventava dominio del ban, del popolo. Già allora, la differenza era solo questione di tempo, dunque, e di fruizione del messaggio – teniamolo a mente.

Il significato contemporaneo del termine ci arriva dal giornalismo francese, quando banalità diventa perfetto per descrivere il giornale di ieri: contiene notizie che ormai tutti conoscono, fatti che, appunto, hanno perso il carattere eccezionale, e dunque originale, di notizia appena scaturita dalla fonte (inaccessibile ai più ma non al bravo giornalista). Soltanto ieri, quei fatti erano notizie originali degne di attenzione; oggi sono fatti banali, poiché dominio ormai di tutti.

In pratica, in mezzo a quelle magliette figherrime, la mia camicia era un giornale di dell’altro ieri.

Che cos’è banale oggi?

Ammettiamolo: quanto pensiamo prima di scrivere un post di LinkedIn, Instagram e persino Facebook per non parlare di un articolo di blog: “Non devo apparire banale, non devo apparire banale”. È un mantra che ci ripetiamo fino alla nausea.

Se non ti sei mai posto il problema significa che: a) sei un fottutissimo genio della tastiera; b) sei un personaggio talmente noto da essere ormai esente dal rischio di banalità, messo in salvo da un’auctoritas che garantisce costante e perpetua originalità; c) non ci sono altre opzioni.

Siamo piegati all’onnipotente legge dell’engagement: la caccia all’originale è il requisito essenziale per essere notati, e subito. Agli algoritmi non piace affatto la banalità: Google in primis punisce il “già detto”, penalizzandone il quality score e condannandolo all’oblio della seconda pagina della SERP (che, lo si sa, è il luogo più sicuro dove occultare un cadavere perché nessuno ci va mai).
I social network, ognuno a suo modo, premiano i post che, nel minor tempo possibile, “ingaggiano” di più.

Come per il bando medievale, i tempi e l’ampiezza della diffusione del messaggio sono parametri fondamentali per stabilire che cosa oggi, sui social network e sul web tutto, può considerarsi originale oppure banale.

In poche ore il tuo post ha raggiunto centinaia, migliaia di persone? Sei originale.
Nessuno si è filato la tua bellissima foto postata ieri su Instagram? Sei banale (e pure sfigato).

Il nuovo a tutti i costi

Le magliette dei miei amici rompevano le regole (dai, facciamo finta che non siano state prodotte e commercializzate a milioni in tutto il mondo, lasciamo loro credere che sia così): originali.
La mia camicia era un relitto del gusto del passato, un’uniforme fuori moda e senza carattere della vita borghese, una vita sempre uguale a se stessa giorno dopo giorno: banale.

È un gioco da bambini. L’eterno dibattito originale vs banale si basa, prima di tutto, sulla valorizzazione aprioristica e sistematica del nuovo contro il vecchio. Dunque, sembrerebbe davvero facile: comunica cose nuove e sarai salvo.

Il meccanismo è il medesimo che regola il fenomeno della moda: un gruppo di “innovatori” assume un comportamento nuovo, che progressivamente viene fatto proprio da un insieme sempre più consistente di “seguaci”, i quali hanno come gruppo di riferimento quello degli innovatori. Quando questo comportamento diviene di dominio generale, prima gli innovatori poi progressivamente i seguaci e infine tutta la popolazione lo etichettano come banale, andando alla ricerca di altre originalissime novità.

Il paradosso dei social network

Peccato che oggi le dimensioni del web e l’apparente orizzontalità dei social network, dove tutti si sentono in grado e nella posizione di poter dire tutto, riducano sensibilmente la vita e il valore del “nuovo”.

Non solo: i social, per loro stesso funzionamento strutturale, si basano sull’ampiezza degli accessi e delle interazioni. La loro forza risiede nel coinvolgere il maggior numero possibile di utenti attraverso contenuti prodotti dagli stessi: un contenuto “originale” e di successo, in tempi ristrettissimi, sarà di dominio comune.

Poco dopo la sua mirabolante parabola ascendete, dunque, diverrà banale.

Finisce così che, sui social network, originale e banale convivono in un pacifico cortocircuito. Merito della temporalità ibrida del web dove, alla rapsodica produzione di contenuti e al continuo sorgere e morire di velocissime meteore, si alternano i flussi e riflussi lunghi di stereotipi più o meno accettati. Merito, anche, della ricezione attiva dei contenuti: ogni utente riceve, rielabora e rilancia il messaggio, con le inevitabili distorsioni che ne derivano, estraendolo da un contesto e inserendolo in un altro, al punto da poter parlare di “ricodifica” del messaggio.

In questo modo, persino la categoria stessa di “nuovo” è messa in discussione: si perde traccia dell’origine dei contenuti, si mette in dubbio non solo la fonte ma la veridicità delle affermazioni; tutto è estremamente relativo e in un attimo ciò che è nero diventa bianco, e viceversa.

Diversamente da quanto avveniva nella comunicazione di massa del secolo scorso, oggi il fruitore si è emancipato e la comunicazione è sbilanciata dal suo lato, divenendone il supremo legislatore e giudice: ancor più dell’opposizione verità/menzogna nel fenomeno fake news, quella originale/banale è ormai frutto di una metrica poco definita e schizofrenica.

Sono banale dunque esisto

La massima aspirazione del creativo, dell’originale è, oggi più che mai, diventare banale, cioè di dominio pubblico.
Sono noto dunque esisto: c’è forse una legge più universale di questa, sui social network?

Domino gli algoritmi, dunque esisto.
Raggiungo migliaia di utenti, dunque esisto.
Sono banale dunque esisto.

Lo dimostra anche il successo di una tipologia di contenuti specifica, che sin dalla nascita dei social ha trovato in questo contesto un terreno fertile per la propria diffusione: gli aforismi. Considerazioni universali, spesso persino di attribuzione errata, applicabili a chiunque: in una parola, banali.
Gli aforismi, al pari dei “buongiornissimo caffè” e degli onnipresenti e coccolosissimi gattini, sono semplici enunciati acchiappa-like o repost: l’importante non è comunicare contenuti originali ma esserci, “battere il colpo”. Lo sanno bene i social media manager: se non comunichi con cadenza regolare, scompari. Muori.

Complice un algoritmo, l’esistenza si è ridotta al puro e banale atto dell’enunciato.

La reputazione dà credibilità alle informazioni

Nella “serra della banalità” che sono oggi i social network – la definizione è di Stefano Bartezzaghi, dal cui brillante lavoro nasce questa riflessione – possiamo trovare un rifugio, uno spiraglio di assennatezza, un solido appiglio a questa insensata e vorticosa guerra al consenso fine a se stesso?

Così come il web ha rivoluzionato il nostro modo di essere, allo stesso modo si può sfuggire alla banalità tirandoci fuori dalle vecchie categorie che la individuano, depotenziandola. A fronte di un nuovo-originale che invecchia o che nasce già compromesso, sembra non ci sia altra soluzione che coltivare il senso critico, il pensiero libero e soprattutto raziocinante, ricercando la solidità di una Tradizione e di fonti attendibili.

Occorre cioè prendere coscienza della propria reputazione, intesa come “opinione condivisa e favorevole” di noi stessi in mezzo agli altri, online e offline: è la reputazione dell’enunciatore a determinare la credibilità dell’enunciato, a stabilirne il grado di verità e, dunque, di originalità o banalità.

Al pari di un brand di un’impresa, la reputazione personale è il nostro “simulacro”, l’ambasciatore che permette agli altri di farsi un’opinione di noi stessi.
Pur essendo soggetta alla continua interpretazione altrui, dipende unicamente dalla nostra costante e ininterrotta attività di auto-costruzione e, oggi più che mai, dalla capacità di adattamento ai livelli degli interlocutori della nostra comunicazione.

Rimedi alla banalità 2.0

Ma come possiamo bagnarci nel mare magnum del banale, senza perdere l’identità e compromettere la reputazione?
Umorismo e nonsense, ironia, paradosso ed equivoco: è questa la bussola che ci permette di navigare immuni in mezzo alla banalità dei social, di fronte alla quale perfino la logica si rivela poco efficace.

È capitato a tutti di provare a “far ragionare” un hater, inutilmente.
Di fronte a un avversario che fa lo stupido, mettendo a dura prova la nostra capacità di giudicarlo e dunque di valutare eventuali possibili contromosse, come già suggerivano Lacan e Umberto Eco, essere razionali serve a poco: ai tempi dei social network, la logica è un requisito necessario ma non più sufficiente.

Stupidità, banalità e luoghi comuni si alternano a intelligenza e originalità in un continuo e imprevedibile rovescio, dettato dal vertiginoso dialogo dei miliardi di punti di vista senza i quali il web sarebbe soltanto un contenitore vuoto e inutile.

È vero: i social network hanno sdoganato la banalità. Ma non sempre appare così stupida; né la stupidità appare così banale. È l’essere umano, my friend. La rete è solo un megafono.

Nel dubbio, mi tengo la camicia.

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