Lavoro come medico, agopuntore e psicoterapeuta. Scrivo di salute, benessere…
Affrontare la tristezza è doloroso e nessuno di noi ha voglia di provare dolore. Tuttavia, a volte ci rendiamo conto che la tristezza non può essere rimandata all’infinito e ci ricordiamo che affrontarla rimane doloroso, ma non è per questo difficile. È sufficiente concedersi tempo, stare da soli e lasciarsi andare. Funziona.
La difficoltà sta nel fatto che spesso il tempo manca, stare da soli ci fa paura e lasciarci andare sembra stupido. È così che la tristezza si accumula e quando, non riusciamo più a resisterle, ci travolge come un uragano.
Potrebbe esserci utile cominciare a ragionare come il Buddha: la tristezza esiste. Tanto vale concedersela un po’ tutti i giorni.
Ma… partiamo dall’inizio!
Come nasce la tristezza
Ci sono momenti in cui le cose vanno nella direzione opposta rispetto a quello che ci aspettavamo. In quei frangenti, tra noi e la realtà si crea un vero e proprio strappo. La tristezza è la reazione psicofisica che mettiamo in atto per cercare di ricucire quello strappo.
Se ci pensiamo bene a volte sembra che la tristezza sia capace con le sue lacrime di restituirci una visione chiara e rinnovata delle cose. Pensateci! Nel momento in cui abbiamo pianto tutte le lacrime e sospirato tutti i sospiri non sperimentiamo forse istanti di grande lucidità e disillusione sulla vita che vi circonda? Dura poco, ma basta a ispirare in noi nuovi pensieri e nuove azioni per ripartire da capo.
Prima di piangere tutto sembrava confuso e complesso, dopo il pianto rimane complesso, ma sembra meno confuso.
La tristezza come strappo e disperazione
In lingua cinese per indicare la tristezza si usa l’espressione BEI AI (悲哀):
– Bei (悲) sta per avere nel cuore due realtà che si voltano le spalle. Il che suggerisce uno strappo, una separazione e un rifiuto, una negazione.
– Ai (哀) invece suggerisce avere nel cuore un abito da lamentazione e una bocca che lo squarcia con i suoi gemiti, le sue lamentazioni e la sua disperazione.
Per affrontare la tristezza dobbiamo tenere conto di entrambi questi aspetti:
– Uno strappo in profondità
– Una disperazione, lamentazione in superficie
La tristezza non nasce dal nulla
Come le altre emozioni primarie (rabbia, paura, piacere) la tristezza non nasce dal nulla. È una reazione istantanea, concreta, psicofisica che si attiva senza la necessità della nostra autorizzazione cosciente.
Prende inizio ogni volta che percepiamo uno strappo fra le nostre aspettative e lo svolgersi della realtà attorno a noi.
Come un bambino che piange
Un esempio semplice? Un bambino desidera qualcosa e la domanda ai suoi genitori, con la certezza che questi acconsentiranno. I genitori, invece, rispondono “No!”. Il piccolo sperimenta una frattura fra quello che si aspettava e quello che la realtà gli offre. In un istante inizia a piangere e a disperarsi.
Se ritorniamo per un attimo bambini, ci rendiamo conto che quel pianto ha uno scopo ben preciso: mettere alla prova la realtà per adattarsi.
Il bambino sta cercando di testare la risolutezza dei suoi genitori. Se, nonostante il suoi pianti disperati, i genitori sono risoluti e mantengono la propria posizione, dopo un po’ il bambino smette di piangere e si adegua alla direzione che la realtà che lo circonda ha assunto.
Se, invece, i genitori cedeno alle sue lacrime, ritornano sui loro passi e gli dicono un “Si!”, a quel punto è la realtà a ritornare sui suoi passi.
In entrambi i casi la tristezza ricuce lo strappo che si era creato tra aspettative e realtà.
Come un adulto che si dispera
Per noi adulti è strano pensare che affrontare le tristezza, lasciarsi andare al pianto e alla disperazione possa essere in qualche modo utile. Noi confidiamo sul ragionamento e nella tristezza non c’è nulla di razionale.
Tuttavia, anche a noi accade di essere rapiti dalla tristezza. Quando un caro ci lascia perché muore, piangere e disperarsi è un modo per vedere se si sveglia. Quando il nostro compagno o compagna ci lascia, piangere e disperarci è un modo per vedere se torna da noi pur di non farci soffrire. Quando commettiamo un errore, mostrarci rattristati è un modo per verificare se chi ha subìto l’errore è disponibile o meno a perdonarci.
Lasciarci andare alla tristezza, quindi, è come un modo per riprendere contatto con la realtà per come realmente è. Una realtà diversa da come ci eravamo aspettati.
Affrontare la tristezza fino in fondo
Affrontare la tristezza fino in fondo significa piangere tutte le lacrime e lavare via tutte le vecchie illusioni sulla realtà. Solo allora ci rendiamo conto che la realtà non ci aveva fatto promesse e quindi non è stata crudele. Eravamo noi che avevamo frainteso la sua apparente regolarità e ci avevamo costruito sopra delle aspettative.
Attraversata la tristezza, ragionare è di nuovo possibile e utile, perché partiamo da una prospettiva disillusa. Ragionare prima di aver affrontato la tristezza invece è cercare di costruire qualcosa, ragionando ancora sulla vecchia idea che ci eravamo fatti della realtà. È inutile! Come cercare di costruire una casa nuova sulle fondamenta fragili di quella vecchia.
Gestire la tristezza per non soffrire
A parole sembra tutto semplice, ma in pratica non è così scontato decidere di lasciarsi andare e affrontare la tristezza. Quando cominciamo a piangere non sappiamo bene quando finiremo. E abbiamo l’impressione che le cose si sfuggiranno di mano e da quella disperazione non ci rialzeremo più.
Forse è per questo che come esseri umani ormai da tempo cerchiamo di soffocare la tristezza piuttosto che darle spazio.
E lo facciamo in due modi:
- Evitiamo di sentire la tristezza
- Cerchiamo di darci spiegazioni rassicuranti
Evitare di sentire la tristezza
Nel primo caso l’idea è che se riusciamo a non sentire la tristezza possiamo anche vivere come se non esistesse. Come per la rabbia, cerchiamo di trasformarci in una pentola dentro cui affogare la tristezza, pur di non manifestarla.
Qualcuno si controlla costantemente per evitare di sentire la tristezza. Qualcuno si aiuta con compresse sedative, con il cibo, con azioni sfrenate. A volte nascono delle vere e proprie compulsioni (autolesionismo, rituali).
Cercare spiegazioni rassicuranti
Nel secondo caso, l’intento è quello di trovare una giustificazione razionale per lo strappo che abbiamo vissuto.
Siamo convinti che se lo strappo avrà un senso non ci farà più soffrire. Per fare questo cerchiamo risposte dentro di noi e se non lo troviamo le cerchiamo confrontandoci con gli altri, parlando loro dei nostri problemi e dei nostri ragionamenti.
…ma non funziona
In entrambi i casi tuttavia le cose non vanno proprio come desideravamo! Quello che accade infatti è che prima o poi la tristezza si manifesta.
Non sentire lo strappo è impossibile. Più ci sforziamo di non sentire, più pensiamo che sentire sarebbe doloroso e comunque prima o poi cediamo.
Soffocare la tristezza con le spiegazioni funziona solo apparentemente. La sensazione di strappo è reale e prima o poi le giustificazioni rivelano le proprie falle. E la disperazione riemerge.
Se non ci concediamo di essere a tratti profondamente tristi, finiamo per essere costantemente sull’orlo della tristezza.
Come se fossimo sempre angosciati e sempre feriti.
Come affrontare la tristezza in modo evoluto
Vi sarete resi conto quindi che c’è un modo soltanto per gestire la tristezza: affrontare la tristezza. Il che in pratica significa due cose:
- Prendersi tempo: il tempo per iniziare a piangere e il tempo per giungere fino alla fine del pianto stesso, che è uno sforzo ancora più grande.
- Evitare di cercare un senso a tutto quello che durante la tristezza viviamo. Lo strappo è un dato di fatto: tutto quello che possiamo fare è accettarlo. Pensare quando siamo ancora tristi, è rendere la tristezza ancora più pesante da sopportare.
Come disse lo scrittore Khalil Gibram “La tristezza non è altro che un muro tra due giardini”. Per quanto duro, il muro è solo un confine.
Cosa ne pensi?
Lavoro come medico, agopuntore e psicoterapeuta. Scrivo di salute, benessere e coltivazione di sé. Mi impegno nell'offrire strumenti di riflessione e azione quotidiana, affinché ciascuno possa essere un po' più protagonista della propria vita anche quando si parla di salute. Credo in una medicina che funziona perché è fatta da medici che si prendono cura di tutti e di ciascuno al tempo stesso.
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