
Sono Direttore aggiunto presso Endti (ente nazionale di trasformazione digitale…
Ultimamente si parla spesso dei temi dello Smart Working e del lavoro a distanza. È facile confonderli, ma non sono sinonimi. Questa imprecisione è tipica di un certo genere di giornalismo che ripropone notizie di tendenza senza approfondirle.
Quando un tema tecnico, in questo caso giuridico ed economico, viene trattato da “penne” alla ricerca di click facili, emergono casi veri e propri di disinformazione che rischiano di disorientare il lettore. Nessun media ne è esente e il prestigio storico della testata, ormai, conta relativamente.
Lo smart working come filosofia
Questa riflessione polemica sul giornalismo italiano non è gratuita: le parole contano e l’informazione alimenta un certo tipo di cultura, che è essenziale per orientare le scelte aziendali.
Facciamo dunque un poco di chiarezza, sottolineando che lo smart working, o ‘lavoro agile’, in Italia è un fenomeno ben preciso, regolamentato dalla legge n. 81/2017. Qualora lo si voglia attivare, bisogna partire proprio dalla comprensione della legge e delle finalità del legislatore.
Lo smart working è prima di tutto una filosofia aziendale che fa riferimento al project management e al change management. Questo aspetto viene ignorato dai decisori aziendali (imprenditori o manager) che ritengono che lo smart working sia semplicemente portarsi il PC a casa e lavorare a distanza.
Sicuramente questo fenomeno esiste, e riguarda lo smart working, ma ridurlo a ciò sarebbe un errore. Infatti, se non c’è un’infrastruttura culturale e tecnologica a supporto di questa concezione del lavoro, il lavoro da casa non è smart working.
Per quale scopo?
Questa infrastruttura culturale è fondamentale. Per questo una corretta informazione ha un impatto diretto sui processi di business. Dal punto di vista aziendale, lo smart working mira a creare una nuova modalità di lavoro che possa migliorare le variabili di interesse. In pratica, si utilizzano studi e dati per migliorare specifiche performance.
Le aree di interesse possono riguardare i costi (costi fissi, come lo spazio, o anche variabili, come rimborsi spese, permessi, straordinari ecc.), l’efficienza aziendale (miglioramento della produttività, comunicazione ecc.), o anche semplicemente il miglioramento dell’immagine (brand reputation, talent acquisition ecc.).
Questo punto è essenziale, perché non esiste un’unica formula di smart working, ma forme diverse che vanno ad intercettare bisogni diversi. Questi bisogni cambiano da azienda ad azienda, ma anche una stessa azienda potrebbe avere necessità diverse a seconda della fase in cui si trova. Se dunque un’azienda può pensare di usare lo smart working per aumentare la produttività, un’altra può farlo per ridurre i costi del personale, e così via.
Se ne deduce che lo smart working, per essere realizzato in maniera struttarata, deve avere degli obiettivi specifici e chiari. Da qui la prima critica a chi l’ha immaginato come una modalità di lavoro volta semplicemente ad aggirare il problema di mobilità legato al coronavirus.
Come progetto e pianificazione
Come detto prima, lo smart working riprende molte logiche del project management. Con ‘project management’ intendiamo semplicemente l’atto di progettare un intervento nelle aziende, tenendo conto degli attori da coinvolgere e definendo degli obiettivi, delle metriche di controllo dei risultati (i key performances index, i KPI), e un periodo prestabilito di sperimentazione.
Già nella normativa emerge come il lavoro agile non segua una logica stringente, ma lasci spazio alle aziende di interpretare il fenomeno in base alle proprie esigenze e specificità. Le esigenze le abbiamo definite come obiettivi, mentre con specificità intendiamo il contesto in cui è inserita l’azienda (culturale, economico, organizzativo, giuridico ecc).
Destinatari dello smart working e responsabilizzazione del personale
Chi sono i destinatari dello smart working? Individuare un criterio chiaro è davvero importante, perché le persone devono essere coinvolte nella decisione di adottare il lavoro agile. Non è detto che tutti possano volerlo o ne comprendano i vantaggi. Anzi, è possibile che lo smart working venga percepito come una punizione, oppure un tentativo di preparare il terreno a un licenziamento.
La fase di comunicazione è essenziale. Ogni persona (manager o dipendente che sia) “interpreta infatti i messaggi e fenomeni attraverso il proprio bagaglio di esperienze e credenze”, come ricordano Visentini e Cazzaroli in Smart working: mai più senza.
Imporre il lavoro agile dall’alto seguendo una logica autoritaria, gerarchica (top-down, dicono quelli “studiati”), può creare danni diretti all’azienda. In questo modo, vengono meno proprio i principi guida dello smart working.
Uno degli aspetti di questa modalità di lavoro, che ricalca il change management, è la partecipazione dei dipendenti alle decisioni e la responsabilizzazione del personale che decide di mettersi in gioco. Gli approcci devono essere collaborativi e il più possibile orizzontali. Tendenzialmente, si supera l’idea che esista un capo che decide tutto e i processi sono condivisi con atteggiamenti il più possibile aperti e collaborativi.
Alcuni autori, come il prof. Danilo Verga, parlano di un passaggio epocale nel management aziendale: “da Competitive Advantage a Collaborative Advantage”. Questa logica è centrale in moltissime evoluzioni manageriali moderne ed innovative. L’idea è che i dipendenti non siano di proprietà delle aziende, ma siano una risorsa che può dare valore all’azienda stessa.
Focus sulle problematiche italiane imprenditoriali
Il problema dello smart working in Italia non è solo la sua adozione, frenata da certe mentalità padronali e accentratrici, ma anche la sua esecuzione. In Italia viviamo una gestione del personale fortemente ancorata a logiche degli anni ’80. Questa modalità sta “azzoppando” le aziende e le loro perfomance, in quanto inibisce l’innovazione stessa.
Uno dei concetti cardine dello smart working e del change management è il rapporto di fiducia tra dipendenti e azienda. In contesti manageriali dove vige la logica del possesso dei dipendenti, difficilmente si può instaurare un clima di fiducia.
Questo problema in Italia sta emergendo ferocemente a causa del coronavirus, che ha portato sulla cresta dell’onda il lavoro in remoto, senza però una cultura del cambiamento. Appena rientrerà la percezione di “emergenza”, le aziende probabilmente revocheranno anche lo smart working.
Sarebbe un segnale di scarsa lungimiranza da parte degli imprenditori. Non si può introdure lo smart working e levarlo come se fossero panni bagnati su uno stendino a casa. Si ha a che fare con persone con dei sentimenti e delle necessità, a cui è stato concesso qualcosa di cui improvvisamente saranno private.
Questo accade per mero volere aziendale, senza un ragionamento economico serio o una gradualità. Se io lavoratore capisco che il mio lavoro si può fare a distanza e lo faccio con dei risultati positivi, che cosa penserò quando dovrò di nuovo fare 40 minuti di traffico ogni giorno per svolgere un ruolo che avrei potuto e ho potuto fare comodamente da casa? Impatterà questo sulla mia motivazione?
Non esiste smart working senza misurazione della perfomance
Ultimo punto essenziale dello smart working, che viene sicuramente dal project management o semplicemente dal buon senso, è che bisogna misurare le performance lavorative. Bisogna individuare degli indicatori (KPI) che mi dicano se una persona sta lavorando bene o meno. Andrebbe fatto a priori nelle aziende, ma con i processi di digitalizzazione legati al lavoro a distanza ne emerge maggiormente il bisogno. Misurare significa capire, avere dei dati ci permette di modificare una strategia o implementarla.
Per fare questo bisogna pianificare prima questi elementi e introdurli gradualmente, non “regalare” lo smart working ai dipendenti, come se fosse il Panettone sotto Natale. Bisogna avere un piano in cui sono chiari i destinatari, le strumentazioni, il livello giuridico, cosa misurare e per quanto tempo.
Fatto senza questa logica, lo smart working è inutile: una moda priva di sostanza che può perfino recare danni alle persone e alle aziende.
Cosa ne pensi?

Sono Direttore aggiunto presso Endti (ente nazionale di trasformazione digitale ed innovazione). Mi interesso di innovazione nell'ambito delle risorse umane. Mi piace ibridare i saperi per avere punti di vista nuovi e sperimentare. Sono convinto che etica e business possano viaggiare insieme e creare valore aggiunto.
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