
Si occupa di formazione e consulenza per (provare a) risolvere…
Ci sono le storie dei fallimenti positivi, quelle che non importa se cadi ma come ti rialzi, quelle dei 9000 tiri sbagliati di Michael Jordan. Di solito è lo storytelling che riguarda il singolo, si parla dei propri buchi nell’acqua e di come non annasparci. E va benissimo.
Spesso l’occhio è sulla sfera professionale: su Linkedin ad esempio ci si scrive addosso, a proposito di fallimento: start up che hanno successo ma che prima hanno fallito velocemente, carriere che svoltano dopo una decina di fallimenti, e via postando.
Nelle aziende reali, invece, noto di frequente un’attitudine alla rimozione quando il fallimento riguarda singoli progetti. Se si sta affrontando un problema atavico, e ci sono stati tentativi di risoluzione precedenti, si fa fatica a parlarne.
Prendendo a prestito per mio vezzo di piccolo cabotaggio un concetto di cui si è discusso parecchio, mi viene da pensare che ci sia una sorta di Cancel Culture dei progetti falliti: l’attitudine a rimuovere e/o a stigmatizzare i progetti andati male e quelli che (anche prospetticamente) gli somigliano.
Progetti che falliscono e parole tabù
Tipicamente, i progetti falliti nei quali mi sono imbattuto hanno a che fare con una metodologia da applicare.
Parlo di metodologia per semplificare. Spesso si tratta di pratiche, di approcci, di un insieme di strumenti per risolvere problemi, ma così ci capiamo.
In questi casi ci sono due varianti.
La prima, nella quale la metodologia è stata applicata con successo, magari grazie al supporto di una società di consulenza, ma dopo qualche mese è andata in disuso (esempio: si, abbiamo fatto un progetto per introdurre una base del metodo, ma poi non siamo riusciti a dare continuità).
La seconda, dove la metodologia non ha attecchito e quindi l’insoddisfazione è totale (esempio: interessante ma qui da noi non potrebbe funzionare, siamo un’azienda particolare).
In entrambi i casi, il progetto va gioco forza a morire. E non ci sono funerali: contrariamente a quanto avviene al lancio dei progetti, non si organizzano momenti ufficiali per affossare un’iniziativa. Semplicemente si smette di parlarne e l’oggetto del tentativo andato male diventa tabù.
Se il progetto era un’iniziativa lean, non si utilizza più la parola lean.
Se in futuro si deciderà di ritentare un intervento simile (magari su scala diversa, con persone diverse, con condizioni diverse) ci sarà un’unica regola: non chiamarlo progetto lean. Si potrà parlare di miglioramento continuo, di intervento finalizzato a ottimizzazione, di buone pratiche per l’efficientamento dei processi, ma guai ad utilizzare la parola tabù.
Perché non si parla dei progetti falliti
Ci sono ragioni in parte anche comprensibili alla base di questa cancel culture aziendalista. Quelle che ho riscontrato più spesso le riassumerei in quattro categorie.
1. Il dito nella piaga
I progetti falliti lasciano cicatrici in chi li ha gestiti e sponsorizzati, non è facile discuterne senza urtare la sensibilità altrui, specie se si tratta di persone che lavorano ancora in quella stessa azienda. Insomma è anche una questione politica.
2. L’eccezione situazionale
Quasi sempre il progetto fallito aveva una o più specificità di contesto che fa percepire l’intervento deragliato come a sé stante. L’idea è che non abbia senso analizzare cosa è andato storto perché sicuramente dipende da quella situazione specifica e irripetibile. Esempio: si, il progetto è andato male, ma la direzione dell’epoca non ci credeva, al contrario di oggi. Vero, non ha funzionato nulla, ma c’erano Tizio e Caio che remavano contro e per fortuna oggi non ci sono più.
3. Le mani bucate
Per ogni intervento fallito c’è stato un dispendio di risorse, direttamente o indirettamente economico. Se hai speso qualche decina di migliaia di euro per mettere in piedi un progetto andato male, ne deve passare di acqua sotto i ponti prima che ci siano le condizioni per richiedere un ulteriore investimento per (provare a) centrare l’obiettivo. Diventa invece più facile farsi approvare il budget per un progetto diverso, magari incentrato su una metodologia innovativa. Esempio: se hai cannato un progetto lean, è meglio chiedere il budget per una progetto agile. Facile.
4. L’effetto pagina bianca
Di frequente comprendere cosa è andato storto in un progetto non è banale, le relazioni causa effetto non sono sempre chiare. L’influenza di chi è coinvolto, delle relazioni professionali in gioco, ma anche la complessità dell’insieme di variabili che incidono sulla riuscita di un’iniziativa fanno da tappo in fase di analisi e decifrazione di cosa è andato storto. L’idea di voltare pagina e iniziare dal foglio pulito semplifica, è anche liberatorio.
Come dicevo sono elementi comprensibili – alcuni più, altri meno – nell’ambito della dinamica aziendale.
Gli effetti della cancel culture aziendale
Tuttavia, la tendenza a rimuovere le cose andate storte e girare pagina, per quanto umana, fisiologica e a volte anche auspicabile, si tira dietro una serie di effetti collaterali con cui poi tocca misurarsi.
Credo ci siano almeno due livelli di impatto a seguito della rimozione dei progetti non riusciti.
a) Sul problema da risolvere
Nel breve, l’impatto più forte ha a che fare con l’efficacia, e cioè con il problema che con il progetto si vuole provare a risolvere. Se non impariamo a partire dai tentativi andati storti per capire quali sono stati gli ostacoli sui quali si è andati a sbattere, il rischio di rigirare lo stesso film del passato è rilevante.
I tentativi falliti sono la prima cosa da mettere sul tavolo, quando matura l’idea di riprovarci. E invece spesso è l’ultima cosa, è la confessione che si fa alla macchina del caffè, non è parte integrante – come invece dovrebbe essere – del nuovo tentativo.
Il problema era inquadrato correttamente?
Il progetto morto era la risposta giusta rispetto al problema?
Abbiamo pianificato delle azioni per rendere sostenibili i cambiamenti introdotti?
Le persone erano quelle giuste? Cosa è cambiato?
Ce ne sono di questioni da indagare per ricavare informazioni preziose da utilizzare per il futuro.
b) Sulle persone da coinvolgere
E qui arrivo alla seconda dimensione: le persone. Quando un progetto va a carte quarantotto la cosa si incide sotto pelle. Se dopo un anno si ripropone lo stesso intervento con un nome diverso, si mina alle fondamenta qualsiasi possibilità di successo perché si piccona brutalmente la credibilità di quell’iniziativa (e di quelle future).
Il problema però non è che si riproponga lo stesso intervento, il che ci può stare, è il fatto che non si espliciti a se stessi e alle persone coinvolte due cose fondamentali:
- perché è andato storto l’ultima volta?
- cosa c’è di diverso perché oggi sia più probabile essere efficaci rispetto ad allora?
Se non si mettono sul tavolo questi due pesi massimi, succede una cosa molto semplice: le persone marzullescamente si fanno le domande e si danno le risposte. E magari sono quelle sbagliate.
Si può quindi decidere di archiviare definitivamente le cose andate male: è umano, lo facciamo continuamente, io per primo. E qualche volta può anche funzionare. Ma l’abuso di questa cultura della rimozione è davvero rischiosa: se non ci si allena a squarciare il velo di ipocrisia, molte delle nuove iniziative finiranno per avvilupparcisi inevitabilmente, generando di conseguenza nuovi fallimenti.
Cosa ne pensi?

Si occupa di formazione e consulenza per (provare a) risolvere problemi. Marito, papà e compagno di viaggio. Mi sono occupato di Risorse Umane e non ho ancora smesso: ho solo cambiato lato della scrivania. La versione più lunga (e noiosa) la trovate su LinkedIn. Nel tempo libero (e di notte) sto su Netflix, scrivo qui e tengo una micro newsletter settimanale su temi HR (interessanti, tecnici e anche un po’ nerd). Cerco di tenere la testa fuori dall’acqua e mi appassionano le persone, specie se argomentano.