Sono un umanista in rete. Nasco analogico e cresco digitale.…
Avevo solo sei anni quando mi iscrissi al WWF: ognuno, da piccolo, è ambientalista come può. Greta Thunberg iniziò a saltare la scuola a quindici anni, ogni venerdì mattina, per protestare davanti al parlamento svedese contro l’indifferenza dei politici al cambiamento climatico e innescando, così, il movimento globale giovanile Fridays for Future. Io, in prima elementare, stressai i miei genitori per farmi tesserare a una delle più importanti onlus al mondo ma, soprattutto, per affiggere l’adesivo con il panda sul lunotto posteriore dell’automobile di famiglia.
Beh, dirai, non è proprio la stessa cosa. Ma essere bambini e ambientalisti trent’anni fa era mica così semplice.
Ambiente & bollettini postali
Correva il 1990 e compresi subito che l’ambientalismo funzionava più o meno così.
Salva i nidi di albanella minore dalle mietitrebbie (bollettino postale e paga).
Salva la Caretta caretta dalle reti fantasma (bollettino postale e paga).
Salva le rane che attraversano le autostrade (bollettino postale e paga).
Salva l’ultimo esemplare di rinoceronte bianco (ma se è l’ultimo e ormai non può nemmeno riprodursi, perché dovrei pagare anche stavolta? …Vabbè, ho capito, vado alla posta.)

Ambiente & sensi di colpa
Morale della favola: quando, vent’anni dopo esatti, l’ufficio soci del WWF mi telefonò per convincermi a domiciliare la quota di iscrizione e quella delle singole donazioni sul mio conto corrente (rigorosamente postale), decisi di farla finita con l’ambientalismo. Con garbo, rifiutai ringraziai e stracciai la tessera.
Da umanista neolaureato alle prese con l’arduo ingresso nel mondo del lavoro e dunque squattrinato per definizione, non disponevo dei mezzi economici necessari a salvare il mondo. Che mi rassegnassi una volta per tutte.
La differenza tra me e Greta Thunberg è tutta qui. Io ho trascorso la mia giovinezza preda del senso di colpa di non fare abbastanza per la natura. Lei ha compreso fin da subito che la colpa era di altri, e che era giunta l’ora di dirgliene quattro. Che potevo saperne io, allora, di essere il tipico target della comunicazione ambientalista post convenzione di Stoccolma, nel pieno della fase accusatoria contro le responsabilità individuali?
Per essere efficace, lei ha capito subito di dover smuovere le coscienze dei potenti; io credevo bastasse mettere il diffusore al rubinetto e chiuderlo mentre mi lavavo i denti, fare correttamente la raccolta differenziata e pagare i bollettini delle campagne WWF.
Greta Thunberg è nostra figlia
Per capire che cosa sia successo a Greta Thunberg e ai nostri ragazzi – e anche perché io, al contrario, sia stato così sfigato – dobbiamo prenderla un po’ alla larga.
Scendere in piazza al grido di #schoolstrikeforclimate o #fridaysforfuture non è il risultato di un’iperattiva supponenza da studentelli fancazzisti che all’improvviso scoprono il potere della propria azione condivisa grazie al digitale. È, anzi, l’evoluzione naturale di una sensibilità “biosferica” che già covava nelle generazioni precedenti.
Greta e i suoi seguaci sono nostri figli in tutto e per tutto, a partire dalla coscienza ambientale. Hanno solo mosso un passo oltre sulla strada che noi “grandi” abbiamo lastricato con fatica nei decenni appena trascorsi.
Un piccolo passo in più, ma che permette loro di vedere il mondo in un’ottica assai diversa dalla nostra, acquisendo una straordinaria capacità di analisi e una più profonda consapevolezza dei processi nei quali sono coinvolti. Una maturità che noi ce la sognavamo. Altro che ragazzini fuori dal mondo: ci sono dentro con entrambe le scarpe, molto più di chiunque altro prima di loro.

Greta Thunberg prima di Greta
Scommetto che se ti dico Severn Suzuki mi rispondi: “Chi?” (ed è normale che sia così).
Nel 1992, anno della Conferenza di Rio de Janeiro, era appena dodicenne. Giovanissima ambientalista canadese, arrivò a Rio insieme a una delegazione di coetanei. Adirata ma senza battere ciglio, tenne un lungo discorso di fronte ai 10.000 delegati di 178 Stati, circa 1600 rappresentanti di organizzazioni non governative e 8000 giornalisti di 100 Paesi diversi, terminando con questo accorato invito:
Non sapete come si fa a riparare i buchi dello strato di ozono, non sapete come si fa a riportare indietro i salmoni in un fiume inquinato, non sapete come si fa a far ritornare in vita una specie animale estinta, non potete far tornare le foreste che un tempo crescevano dove ora c’è un deserto. Se non sapete come fare a riparare tutto questo, per favore smettete di distruggerlo.
Una Greta Thunberg ante litteram, di cui nessuno si ricorda a causa dello scarso rilievo mediatico che fu dato al suo intervento e dell’assenza – oggi possiamo dirlo – di potenti canali di comunicazione peer-to-peer come il web e i social media.
Ma c’è soprattutto un altro motivo all’origine della damnatio memoriae di Severn Suzuki, e della mia incapacità a superare la fase dei bollettini postali WWF. Semplicemente, i tempi non erano maturi. Per farti capire meglio ricorrerò alle parole e alla visione di un celebre economista, e ambientalista, in odore di eresia: Jeremy Rifkin. Stammi a sentire e dimmi se non è così.
Tutta colpa dell’empatia
Sì, è proprio colpa dell’empatia. Cioè di quel sentimento che ci fa sentire nei panni dell’altro, permettendoci di connetterci ai nostri “simili” e all’ambiente che ci circonda. (Ho messo le virgolette a simili perché è una parola chiave, tieniamola a mente.)
Contrariamente a quello che molti credono, l’empatia è una cosa concreta, tanto che la potresti quasi toccare. Si tratta di una rete di cellule in collegamento le une con le altre: è, infatti, il risultato delle connessioni neuronali tra la corteccia premotoria, cioè quella parte del nostro cervello in cui si concentrano i cosiddetti neuroni specchio, e i centri emotivi che regolano le risposte ormonali agli stimoli esterni. Grazie a questi “connettori”, viviamo le stesse emozioni, avvertiamo le stesse percezioni che provano gli altri.
Funziona grazie ai neuroni specchio che, nel momento in cui vediamo gli altri compiere azioni, attivano nel nostro cervello gli stessi neuroni che sovrintendono a quei medesimi comportamenti altrui.
Funziona più o meno così:
- Osserviamo i nostri simili mentre provano determinate emozioni, che riconosciamo per lo più grazie a espressioni e movimenti muscolari del volto;
- Nel nostro cervello, attraverso i neuroni specchio, riproduciamo quelle stesse sensazioni muscolari, attivando l’emozione corrispondente;
- Ecco che grazie all’empatia percepiamo le sensazioni e dunque le emozioni degli altri.
Questo significa soprattutto una cosa: che il benessere dei nostri simili ci provoca piacere. Tralasciando eventuali controindicazioni etiche – come il fatto che l’altruismo, da questo punto di vista, non è che il frutto di un ingenuo egoismo – quello che voglio sottolineare è semplicemente che, se vedo gli altri stare bene, sto bene anch’io. Il motore dell’empatia è questo.
Ma chi sono gli “altri” o meglio quelli che considero miei simili?
Empatia (r)evolution
Ed ecco Rifkin, che ci spiega come la capacità di empatia dell’essere umano sia mutata più volte nel corso della sua evoluzione, facendosi progressivamente più ampia e comprensiva. È avvenuto in momenti ben definiti del nostro percorso di Homo sapiens sapiens, cioè in corrispondenza dello sviluppo delle infrastrutture tecnologiche e sociali.
Nelle comunità primitive di cacciatori-raccoglitori, caratterizzate da quella che lui chiama “coscienza mitologica”, l’empatia si limitava ai legami di sangue e di stretta parentela; tutto il resto era estraneo e, il più delle volte, nemico. Duecentomila anni dopo, con l’avvento dell’agricoltura e lo sviluppo delle prime città in Oriente e Medio Oriente, si è passati a una “coscienza teologica” e l’empatia si è allargata a tutti coloro che condividevano la stessa religione.
Dobbiamo aspettare altri tremila anni, prima che l’infrastruttura cambi ancora: con la prima rivoluzione industriale e la nascita del moderno concetto di nazione, la coscienza diventa “ideologica” e con essa l’empatia si estende a “famiglie metaforiche” cioè a tutta la grande comunità nazionale, ovvero con il gruppo di persone con cui condividiamo un senso collettivo di fedeltà alla stessa patria.
La seconda rivoluzione industriale, a stretto giro, cambia lo scenario: con l’apparire dei primi organi sovranazionali e i relativi mercati, nasce la “coscienza psicologica” che estende l’empatia in modo cosmopolita, aprendo nuovi legami tra individui che condividono una mentalità, un ambito o ruolo professionale, una particolare visione del mondo.
Empatia “biosferica”
Ed eccoci a oggi, a quella che Rifkin non esita a definire terza rivoluzione industriale: grazie all’avvento della rete, ovvero a un’infrastruttura glocal cioè allo stesso tempo locale e globale, si è giunti a una “coscienza della biosfera”: la consapevolezza di essere parte di un tutt’uno indissolubilmente connesso. Dall’atmosfera alla litosfera, condividiamo lo stesso spazio vitale con tutti gli esseri animati del Pianeta e, non ultimo, con il Pianeta stesso in quanto sistema vivente: appunto, la biosfera.
Da questa coscienza, in particolare in seno alle nuove e nuovissime generazioni – Greta Thunberg e il movimento Fridays for Future ne sono l’esempio più eclatante – sta nascendo un’empatia ancora più accogliente, nella quale gli “altri” o meglio i nostri “simili” sono tutte le creature con le quali condividiamo un’eredità evolutiva.

Attenti a Greta (e ai nostri ragazzi)
Stiamo assistendo a una presa di coscienza senza precedenti da parte di fasce sempre più ampie di popolazione: consapevoli di essere parte di un unico sistema di elementi interconnessi, questa “nuova umanità” è profondamente sensibile e compartecipe delle vicende che, a causa dei comportamenti delle precedenti generazioni, stanno mutando il destino della Terra.
Da un lato la maturazione dell’empatia “biosferica”, dall’altro la ferma consapevolezza di non avere alcuna colpa in tutto questo e, per giunta, dover subire passivamente gli effetti delle scelleratezze commesse dai propri nonni e genitori, hanno innescato nei nostri ragazzi reazioni spesso inconcepibili per i più “anziani”.
La giovane età e la determinazione a rivendicare per se stessi un mondo migliore, o almeno equivalente a quello che le precedenti generazioni si sono spremute e godute, sono un mix esplosivo: da maneggiare con estrema cura.
Come che stiano le cose, posso dirlo senza vergogna.
Ti voglio bene, Greta.
Perché stai facendo quello che non ho avuto il coraggio di fare io, certo.
Perché stai cambiando il modo di comunicare cose molto importanti, anche.
Ma soprattutto per avermi liberato dai sensi di colpa.
Capiamoci meglio:
Per una panoramica sull’ambientalismo: Nespor Stefano, La scoperta dell’ambiente. Una rivoluzione culturale. Bari, Laterza, 2020
Per neuroni specchio, empatia e molto di più: Lakoff George, Non pensare all’elefante. Come riprendersi il discorso politico. Milano, Chiarelettere, 2019
Per l’evoluzione dell’empatia e una bella boccata di futuro: Rifkin Jeremy, Un Green New Deal globale. Il crollo della civiltà dei combustibili fossili entro il 2028 e l’audace piano per salvare la Terra. Milano, Mondadori, 2019.
Per capire come si è passati da puntare il dito sulle responsabilità individuali a quelle collettive: Jaap Tielbeke, “Il mito del consumatore verde”. Su Internazionale n° 1372, anno 27, 21 agosto 2020, pp. 36-41.
Cosa ne pensi?
Sono un umanista in rete. Nasco analogico e cresco digitale. Mi occupo di comunicazione e marketing, e sono fermamente convinto che una storia aggiunga sempre valore a prodotti, aziende e persone. Credo nel potere delle parole e delle immagini. Credo negli imprenditori illuminati e nell'umanesimo come filosofia di vita. Nel tempo libero mi nutro di cultura, fotografia, natura e archeologia.