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Sotto la mascherina: la domenica a letto non è per tutti

Sotto la mascherina: la domenica a letto non è per tutti

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Non scrivo di pandemia, di manovre governative, di misure di restrizione o di speculazioni economiche sui prezzi dei dispositivi di sicurezza o di quale sia la mascherina migliore.

Tutta questa roba, l’abbiamo già vista: è solo il secondo turno, quindi mettiamoci comodi in poltrona e questa volta godiamoci il lungometraggio.

Sì, il lungometraggio. Se vogliamo metaforizzare. Pensateci bene: metà marzo 2020, aprile, maggio e un pezzetto di giugno. Poi sole, vento, vino e tralalaà. Eh sì, perché le feste e le slinguazzate selvagge in spiaggia al chiaro di luna, sì, siamo tornati a farle. Non ce n’è coviddi.

Metà ottobre, tre mesi dopo, mia bella estate, la tegola dei contagi ritorna con la sinfonia n. 5 di Beethoven come colonna sonora. Anche voi state immaginando nella vostra testa l’attacco della composizione? Anche voi state immaginando nella vostra testa un possibile attacco di panico in proiezione di una restrizione, declinata questa volta sul film? Ottobre, maggio 2021? Ottobre giugno? Poi pausa, due mesi e poi Lockdown 3? Sembrano proprio i titoli di un successo seriale hollywoodiano.

Questa incertezza fa immaginare il genere thriller ansiogeno per la nostra vita, quella dei nostri cari, il lavoro, il cane incontinente e il lievito di birra. Ma togliamoci un attimo la mascherina, davanti allo specchio per favore, e diciamocelo.

Ce lo siamo meritato.
O almeno, in un modo o in un altro abbiamo contribuito con negligenza, superficialità, irresponsabilità, distrazione.

Ora mettiamoci un po’ di cerone bianco, lungo il taglio della guancia, e continuiamo a guardare bene nello specchio. Abbiamo sofferto la reclusione, il lavoro dal divano, e la pizza fatta in casa, la cassa integrazione che non arriva, il video aperitivo, lo strillone dal balcone del vicino, gli arcobaleni e la stramaledetta chitarra elettrica sui cieli di Roma.

Ma mettete a fuoco la vostra faccia, il vostro naso nello specchio. Non vedo una piaga, un segno, un rossore all’altezza del setto. 7-8-10 ore mascherina, occhiali, cuffia, doppio camice monouso, copriscarpe, doppi guanti, visiera. Pannolone. Perché una volta che sei vestito, una volta che sei bardato, conviene che ti pisci nei pantaloni. Uno, perché non puoi mettere e togliere; due, perché con tutta sta armatura devi toccare gente malata che potrebbe trasmetterti il virus, che puoi portare a casa dai tuoi familiari, che puoi aver contratto senza neanche essertene accorto. Senza sentirlo.

So di infermieri che hanno dormito in macchina dopo un dubbio su un contatto avvenuto sul lavoro. So di una mamma che ha organizzato una festicciola in casa con una trentina di persone nonostante febbre, tosse, e attesa referto di tampone. E poi tutti insieme con le mani al cielo gridiamo: focolaio!!

Ho sentito il cerone stridere sulla mia faccia quando mi guardo allo specchio e mi domando: sto facendo tutto il possibile per contribuire al contenimento della pandemia? Sto salvaguardando i miei cari anziani in famiglia, quando torno da una serata in giro col coprifuoco?

Comincio a disegnarla la mascherina. Continuo a pensare a quei ragazzi in prima linea. Ai loro segni sul volto per il contatto continuo del tnt sull’epidermide. L’estate addosso l’hanno vista anche loro in reparti di terapia intensiva. Sempre bardati ma forse a maniche corte. I segni sul volto della mascherina.

Queste sono le cose che non dovremmo dimenticare. Quegli occhi sopra un verde azzurrino a tre strati non dovremmo dimenticare. Li abbiamo chiamati eroi, ora a volte, ci fanno paura come gli appestati, perché pensiamo possano contagiare anche noi, poveri spostatimbri impiegati con la mascherina sotto il naso e l’orario ridotto causa ‘chemmenefregaame’ ma si “Io sto con gli infermieri”.

Mi lavo la faccia, mi tolgo il cerone, indosso una mascherina ed esco in questa bella domenica di sole, pensando ad una bella infermiera, pensando al duro lavoro che fa, all’impegno che ci mette per alleviare, supportare, curare, annientare il male.
Le porterò dei fiori a fine turno, l’abbraccerò forte, non solo per ringraziarla.

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