All’età di tre anni ho deciso di diventare vegetariano; in…
Volemose bene? Uno dei miei cavalli di battaglia è che il datore di lavoro / la manager / la leader / il capo debba avere a cuore il bene dei propri collaboratori in modo genuino.
Se non ci riesce, se non vuole, se non le o gli interessa, prima o poi sarà confrontatə a tutte quelle problematiche tipiche di chi non si sente consideratə: poca fedeltà all’azienda, poca diligenza nelle proprie mansioni, poca produttività – e quest’ultima si manifesta in talmente tanti modi intangibili, che è impossibile valorizzare il danno che fa.
Regolarmente, nei commenti ai miei articoli, c’è un(a) collega HR che mi risponde con un “eh vabbeh, allora volemose bene“. Vediamo perché volersi bene non è l’espressione appropriata e, soprattutto, perché non è sufficiente.
Volemose bene: due significati distinti
La prima interpretazione è quella lessicalmente corretta, che probabilmente solo i romani de Roma padroneggiano: significa, essenzialmente, fingere che tutto vada bene.
La seconda interpretazione, che è quella che risuona alle mie orecchie di nordista e straniero, è che non ci sia spazio per il volersi bene in ambito professionale – non siamo in famiglia (sebbene molte aziende, in maniera direi mendace, pretendono di esserlo).
Entrambe le interpretazioni non hanno nulla a che vedere con “avere a cuore” i propri collaboratori, che significa, invece, interessarsi a loro e occuparsene con attenzione.
Perché dobbiamo essere interessatə ai nostri collaboratori
Le ragioni programmatiche sono quelle che ho citato poco fa: una persona che si sente considerata avrà tendenza ad essere più produttiva, meno assente per malattia e più leale nei confronti di azienda e colleghi.
Tuttavia, queste ragioni, per quanto reali e, fino a un certo punto, anche verificabili, sono soltanto dei simulacri. Cosa intendo con questo? L’equazione tra soddisfazione personale e maggiore produttività è una rappresentazione volutamente (avrei osato scrivere dovutamente) inaccurata della realtà.
Un simulacro, appunto.
Semplice da capire (da parte di chi è abituatə al linguaggio aziendalista del secolo scorso) e di conseguenza semplice da vendere (da parte di noi consulenti).
In realtà, le persone non sono più produttive perché sono trattate bene e quindi sono più felici: sono più produttive perché hanno voglia di esserlo. Ci tengono. E ci tengono, perché qualcuno tiene a loro, non per un generale volemose bene. Questo “qualcuno” è la capa / il manager / il leader / la datrice di lavoro di cui sopra, che ha dimostrato di avere a cuore il bene del suo team.
Veramente interessatə, intendo
Sono spesso confrontato a delle grandi diatribe o a delle piccole incomprensioni tra superiore e subordinatə.
Al(la) superiore un tantino forte nelle sue espressioni nei confronti dei collaboratori e delle collaboratrici, ho fatto spesso l’esempio del cliente: lo diresti a un cliente, con quelle parole e con quel tono? No. E allora non dirlo neanche a un tuo collaboratore.
Con il tempo, ho realizzato che anche questo esempio è un simulacro: è facile da capire perché parla al nostro cervello aziendalista, che è difficile deprogrammare. Siamo cresciuti con questa idea cliento-centrica che ha livellato tutto il resto, in azienda, dai processi alle relazioni con i collaboratori.
A poco è servito lo sforzo di identificare i colleghi come “clienti interni”. Quella parola, “interno”, sembra agire da anestetizzante, da negazione, a volte persino da contrappasso: non ho potuto dire alla cliente che era una cogliona, sto ribollendo in “interno”, quindi adesso caro assistente ti faccio passare dieci minuti infernali perché hai dimenticato di prenotare il ristorante, tu, inutile merdaccia. Altro che volemose bene…
Ecco. Allora non cadiamo nel tranello della relazione customerizzata. Facciamo appello a qualcosa che ci accomuna tutti: ognuno di noi è l’altro di qualcuno. Quindi, non fare agli altri cioè che non vorresti facessero a te.
Non è difficile da ricordare: è uno slogan che ha avuto un discreto successo, negli ultimi due mila anni.
Il piatto di una bilancia non equilibrata
Questo avere a cuore si traduce in modi diversi in altrettante situazioni.
Non bisogna avere paura di adottare una visione un tantino schizofrenica, nell’affrontare la quotidianità lavorativa. L’importante è tenere sempre il contatto con la propria umanità, per evitare di diventare, col tempo, un(a) manager bipolare che un giorno ti sorride e il giorno dopo ti bastona.
Questa dualità, che ho scherzosamente chiamato schizofrenia, consiste nell’avere sempre ben presente gli interessi della persona e gli interessi dell’azienda; idealmente, di far coincidere entrambi nella stessa soluzione – ma diciamoci la verità: il più delle volte non è possibile.
In questo sta tutta la difficoltà di gestire l’ambivalenza tipica di chi, per ruolo, ha delle responsabilità di conduzione.
Non è un caso se le grandi aziende multinazionali hanno fatto del “dealing with ambiguity” una delle loro competenze chiave in fase di selezione (ma questa è un’altra storia).
I 6 passi per essere un(a) leader interessatə al proprio team
1. Riuscire a vivere serenamente il fatto che gli interessi delle parti siano a volte divergenti è il primo passo importante per riuscire a gestire al meglio la situazione.
2. Il secondo passo è tenere presente che tutto quello che ha a che fare con la sfera valoriale del collaboratore e della collaboratrice, in generale, ha la precedenza sulle problematiche aziendali; in particolare le questioni di salute e familiari che non potevano essere pianificate.
3. Il terzo passo è mostrare interesse senza essere curiosi o eccessivamente fiscali sui dettagli.
4. Il quarto passo è fare un passo indietro: è raro, estremamente raro, che tutto vada a rotoli in azienda per un’assenza o un errore o una dimenticanza. Certo, a volte le conseguenze sono gravi e vanno affrontate in modo altrettanto serio, ma non ci dovrebbe essere spazio per gli inutili isterismi.
5. Il quinto passo è vedere il lato positivo della questione: per una volta che, come azienda, devi cedere qualcosa, altre 10 volte i tuoi collaboratori hanno fatto qualcosa in più che non erano tenuti a fare: ricordati che nulla è dovuto veramente, neanche quando li paghi tu, di tasca tua. Sono persone, non proprietà.
6. Il sesto passo è accettare che i 6 passi per essere un(a) leader migliore sono anch’essi un simulacro – o peggio, un tentativo maldestro di aumentare il punteggio SEO di un articolo. Perché le persone sono complesse, la realtà è complessa, e raramente la complessità può essere rappresentata in sei tappe standard.
Sul terreno, concretamente, cosa succede?
Per evitare di restare a livello teorico, può essere utile citare qualche esempio concreto di volemose bene (reale, tra l’altro: presi dai miei vent’anni di esperienza in qualità di responsabile risorse umane in aziende di ogni tipo e dimensione).
I suggerimenti, lo vedrete, a volte non tengono conto del quadro legale in maniera vincolante. Anche in questo caso, vale il discorso dell’equilibrio tra bisogni aziendali e bisogni personali, sapendo che, nella stragrande maggioranza dei casi, la parte vulnerabile non sarà l’azienda. Quindi, se si può fare qualcosa di più o di diverso da quanto previsto dal contratto collettivo, io lo farei.
Caso 1: Mezzo team in dolce attesa
Alla terza gravidanza quasi sincrona all’interno del mio team, mi è venuto il dubbio che il nanetto della felicità che Moira aveva messo sulla scrivania fosse in realtà il nanetto della fertilità.
Ero contento della situazione? No. Professionalmente no, perché mi complicava la vita e il lavoro di tutti i giorni.
Ero contento per le colleghe? Sì, se ne erano felici anche loro, chiaramente.
Ho cercato di trasformare quel sentimento di paura e di insicurezza che mi aveva assalito in qualcosa di costruttivo: rivediamo i processi, snelliamo, semplifichiamo, codifichiamo ciò che sa fare solo una collega; insomma, organizziamoci. Ma mai, mai colpevolizzare le collaboratrici per qualcosa che è naturale e giusto.
Questo non vuol dire non esprimere le propria difficoltà. Ricordate? Non è un volemose bene. È un tenere agli altri, sinceramente – e gli altri tengono a te. Quindi mi sono sentito libero di esprimere le mie preoccupazioni, ma sempre facendo attenzione a non creare sensi di colpa.
Caso 2: La collaboratrice non viene a lavorare per quattro giorni perché ha la figlia all’ospedale.
Se si tratta di un incidente o di un evento non previsto, la questione non si pone: si rassicura la collaboratrice di prendere il tempo necessario e di non preoccuparsi per la sua assenza. Per un numero ragionevole di giorni, personalmente non conterei né assenza né vacanza.
Se si tratta invece di un intervento pianificato, è corretto che la collaboratrice si assuma l’assenza in congedi, ore o vacanze. In questo caso, l’avere a cuore la sua situazione si esprimerà in vicinanza, in piccole attenzioni (ad esempio: mandare un pensierino alla bambina in ospedale), nell’assicurarsi che tutto vada bene e nel facilitare la persona ad occuparsi della propria famiglia.
Se si tratta invece di una malattia di lunga durata, si apre una discussione quasi etica: da una parte è comprensibile, di fronte a una prova di questo tipo, essere tentati di supportare al massimo la propria collaboratrice; è anche vero, però, che, nell’incertezza di quanto durerà l’assenza e di che tipo di impegno richiederà alla persona, l’ago della bilancia, a mio avviso, pende maggiormente dal lato aziendale.
In questo caso l’avere a cuore può tradursi in un congedo non pagato con garanzia di riassunzione, o in un prestito facilitato per aiutare la famiglia a sostenere le spese specialistiche, o in un contributo collettivo dei colleghi che “regalano” un po’ delle proprie ferie alla collega.
Caso 3: Il collaboratore il cui padre è morto l’anno scorso chiede di andare al funerale… del padre.
Il principio di equilibrio (e di equità) richiede che la situazione venga spiegata, ma il tenere alla persona include il fatto di non brandire il regolamento come se fosse la terza tavola di Mosè.
“Quindi la persona che è deceduta non è il tuo padre biologico, giusto? Ma perché tu lo consideri tuo padre?” – è già troppo.
Mi basta sapere che il collega ci tiene ad andare a questo funerale di una persona che identifica come sua padre. Poi non ho bisogno di sapere che è stato per anni in famiglia affidataria, che è stato poi adottato da quello che considerava suo padre e che è deceduto l’anno scorso, mentre questo è il padre biologico che non ha praticamente mai conosciuto. Non ho bisogno di saperlo, ma me lo ha detto senza che glielo chiedessi, perché si fida. E questa relazione di fiducia non l’ho mai tradita – neanche con chi, sopra di me, mi ha chiesto le ragioni di quella strana doppia assenza.
Caso 4: Il forno a micro-onde più caro della storia
Un team trasversale, che si occupava di contabilità, aveva la sua sede in centro città e non in azienda, per una questione logistica. Occupavano alcuni uffici che non avevano un angolo cucina. Per questo hanno fatto una colletta e hanno comprato un micro-onde da 150 franchi (130 Euro) che hanno messo nello spazio comune.
La loro responsabile ha chiesto al suo capo se fosse possibile rimborsare il forno a micro-onde. Dopo innumerevoli analisi dei contratti, degli statuti, dei regolamenti, e dopo aver persino chiesto il parere del giurista, si è deciso di negare la richiesta perché, di fatto, non si sapeva come giustificarla.
La cosa è finita lì: le ragazze non hanno insistito.
Ma credete che sia finita lì, davvero? A parte il tempo che ognuna delle persone ha speso sul caso e che supera già ampiamente il costo dell’elettrodomestico, sono convinto che l’azienda, quel forno, l’ha ripagato centinaia di volte e per anni.
Un tentativo di conclusione
Avere a cuore significa anche questo: permettere alle persone di migliorare l’ambiente di lavoro e, soprattutto, evitare all’azienda di fare degli errori potenziali, come nei casi che ho riportato poco fa. Perché, alla fine, costano anche quelli. Anche più del costo vivo di un’assenza o di un micro-onde.
Rileggendomi, ho una domanda (per me e per tuttə): è veramente così strano pensare che sia normale volere il bene dell’altro?
Certo, il collega non è un familiare – e magari neanche ci piace un granché. Ma è una persona. Come noi. Come le persone alle quali vogliamo bene. I suoi bisogni e le sue aspettative sono molto simili – se non identiche – alle nostre.
La tentazione quindi di finire con un altro slogan di successo è troppo forte, e me ne scuso in anticipo. Ma tutto d’un tratto, lo leggo sotto una luce diversa: Ama il tuo prossimo come te stessə.
Per vivere meglio come società, alla fine ciò che dovremmo fare è piuttosto semplice.
Allora perché non lo facciamo?
Cosa ne pensi?
All’età di tre anni ho deciso di diventare vegetariano; in seconda elementare, la maestra ha convocato i miei genitori perché “non era normale” che un bambino conoscesse tutti i nomi dei funghi in latino; a 13 anni ho amato per la prima volta senza sapere che non era amore; a 15 ho smesso di fare decathlon perché odiavo la competizione; ancora minorenne, sono stato processato da una corte marziale. A 20 anni mi sono sposato e a 23 ho divorziato; a 25 anni dirigevo una start-up che ho fatto fallire; a 29 ho avuto la meningite, sono morto ma non ho saputo restarlo. A 35 anni ho vissuto una relazione poliamorista e sono diventato padre di figli di altri. A 42 mi sono licenziato da un posto fisso, statale e ben pagato per fondare l’Agenzia per il Cambiamento Purple&People e la sua rivista Purpletude. A parte questo, ho 20 anni di esperienza nelle risorse umane, ho studiato a Ginevra, Singapore e Los Angeles, ho un master in comunicazione e uno in digital transformation e ho tenuto ruoli manageriali in varie aziende e in quattro lingue diverse: l’ONG svizzera, la multinazionale francese, le società americane quotate in borsa, la non-profit parastatale. Mi occupo soprattutto di comunicazione del cambiamento, di organizzazioni aziendali alternative e di gestione della diversità – e scrivo solo di cose che conosco, che ho implementato o che ho vissuto.