All’età di tre anni ho deciso di diventare vegetariano; in…
Molti candidati vengono scartati in fase di selezione perché non sono in linea con la cultura aziendale. Poi, quando chiedi ai manager in cosa consista questa “cultura aziendale”, ti ritrovi nel vuoto interstellare. Avete presente? Quello in cui non c’è proprio nulla, neanche uno specchio su cui arrampicarsi.
La cultura dell’intercambiabile
Non confondiamo marketing con realtà. Sono due bestie diverse.
La maggior parte delle aziende ha dei valori che sono intercambiabili – e illudersi che questi definiscano la cultura aziendale è come credere ancora a *** spoiler alert *** Babbo Natale.
Una dimostrazione? Prendiamo tre società molto diverse: un’azienda farmaceutica, un’agroalimentare e un importante gruppo del lusso. Vediamo quali sono i loro valori, così come proclamati dai loro siti web rispettivi (consultati il 21 settembre 2020):
- Innovazione / Qualità / Collaborazione / Performance / Coraggio / Integrità
- Creatività / Innovazione / Eccellenza / Spirito Imprenditoriale
- Passione / Coraggio / Curiosità intellettuale / Fiducia / Integrità
Sapreste attribuire la stringa di valori a un settore particolare? Non è evidente, vero?
Solo il primo valore, forse, dice qualcosa dell’azienda: Innovazione (1) per Novartis, Creatività (2) per LVMH e Passione (3) per Barilla. E comunque quel “qualcosa” è rivolto soprattutto agli investitori, che vanno rassicurati.
Pensiamoci: cosa sarebbe la pasta italiana senza un po’ di passione? e la ricerca farmaceutica senza innovazione? e comprereste una borsetta dell’ultima collezione di Louis Vuitton se fosse noiosa e non-creativa? Ecco).
Se i valori sono intercambiabili, su quali basi possiamo definire la cultura aziendale e, soprattutto, quali sono i punti saldi rispetto ai quali richiedere un allineamento?
Allineare in nome della cultura aziendale significa uniformare
Il sogno proibito di ogni HR è quello di poter avere un’azienda con una sola anima, una sola visione, una condivisione tale di ideali da remare tutti insieme nella stessa direzione, senza bisogno di consultare una bussola. A volte senza neanche bisogno di una pagaia – genere moto perpetuo.
I vari progetti di cultura aziendale servono a questo. Non illudiamoci: non lo facciamo per il bene delle persone, lo facciamo perché l’uniformità è rassicurante e ci aiuta a mantenere il controllo.
In nome di questa unità cerchiamo di picconare ogni tipo di divisione, separazione, muretto: è per soddisfare questo bisogno che sono nati gli invivibili open space ed è in nome di questo stesso principio che facciamo fatica ad accettare lo smartworking, che fa di ogni schermo di computer una nuova barriera da abbattere.
Se lavorate in un’azienda che negli ultimi anni ha portato avanti complessi e costosi programmi di change management, con un focus sulla creazione di una sola, unica cultura aziendale, allora siete pronti per… il passato. Gli anni ’90, ad esempio.
Per il futuro, avrei qualche dubbio.
Semplicemente perché i danni provocati dallo sforzo nell’allineare le risorse superano di gran lunga i vantaggi: si incentiva un generale impoverimento della diversità, di carattere e di idee; si demotivano (e si perdono) i talenti “geniali”, che fanno fatica a uniformarsi; ci si mette in modalità pilota automatico e nessuno ha più il coraggio, o la capacità, di vedere l’iceberg all’orizzonte.
Quando ci domandiamo come è possibile che grandi aziende, leader del loro settore, siano andate dritte contro il muro, cerchiamo di non dare la colpa solo alla violenza delle innovazioni esterne: spesso è la loro stessa cultura aziendale, uniformata, che li ha resi ciechi al cambiamento. E li ha fatti affondare (l’iceberg, ricordate? tutto a dritta).
I confini sono naturali
Per molti anni sono stato un picconatore anch’io.
Ho attivamente combattutto i silos aziendali, ho disincentivato quei manager che “pompavano” il proprio team a discapito degli altri e ho creduto nell’illusione della cultura aziendale come denominatore comune.
La diversità non è solo quella etnica, di genere, di orientamento sessuale: è anche quella, ancora più difficile da gestire, delle persone che non la pensano necessariamente come te. Che fanno cose che non capisci. Che si associano tra di loro e, contro ogni (tua) aspettativa, fanno un buon lavoro.
L’essere umano ha una forte componente tribale e questo si rispecchia anche all’interno delle organizzazioni (che non sono altro che insiemi di persone): ci sono i gruppi, le associazioni naturali, le tribù, i capi informali e carismatici. Ci sono uomini e donne, insomma. E ci sono confini – tra gli individui e tra i gruppi.
Porsi l’obiettivo di annullare questi confini è pericoloso. Finanze e marketing non devono pensarla allo stesso modo. Le risorse umane non devono essere sempre d’accordo con il CEO. Invece quello che chiamiamo allineamento alla cultura aziendale è spesso fare ciò che ci viene detto di fare senza farci domande, in semplice, ovina, accettazione.
Accettazione che viene premiata: tu sì che sei in linea con la nostra cultura! Bravo, eccoti il biscottino. Ora torna a cuccia.
Impariamo dall’osmosi
In natura, tutto ha dei confini: la vita è possibile solo grazie all’ordinato lavorare congiunto di unità individuali. Pensiamo alle cellule, ad esempio. La loro membrana le protegge e, nel contempo, permette loro di interagire con l’esterno.
Il fenomeno si chiama osmosi. È un processo fisico spontaneo, che non richiede apporto esterno di energia. È quasi gratis, insomma (dovrebbe piacere al CFO).
Grazie all’osmosi, la soluzione più concentrata tende a diluirsi, riducendo la differenza di concentrazione tra esterno e interno della membrana. È così che avvengono gli scambi: ci sono cose che passano e cose che invece vengono bloccate.
Per prendere un esempio concreto, questo principio è alla base delle conservazione degli alimenti: le olive in salamoia, per dire, non vanno a male perché sono immerse in una soluzione ad alta pressione osmotica, che le protegge dalla maggior parte delle degradazioni microbiotiche.
Un meccanismo analogo è presente nella maggior parte dei lassativi, che, per osmosi, portano ad accumulare acqua nell’intestino, facilitando quindi il transito.
Quando in azienda spingiamo troppo (gioco di parole assolutamente fortuito) affinché i vari dipartimenti si fondano, esercitiamo una forza contraria e, di fatto, mettiamo in pericolo l’organizzazione. La filosofia di avere una sola, unica cultura aziendale, può portare piuttosto rapidamente a una visione ristretta del mondo e, soprattutto, all’accettazione di una narrativa unica e non necessariamente utile al business.
Perché, come abbiamo visto poco fa con l’esempio di Novartis, Barilla e LVMH, questa narrativa è spesso costruita su un bisogno di marketing (quindi esterno) e non su un set valoriale veramente fruibile in interno.
Quindi? Rendiamo permiabili i muri
La vera sfida non è abbattere i confini che sono percepiti come barriere, bensì rendere questi stessi muri maggiormente permiabili. Non è necessario avere una grande vasca in cui tutto venga diluito, dobbiamo accettare di mantenere dei vasi separati, ognuno con le proprie caratteristiche, ma che siano in grado di comunicare tra loro.
Un’organizzazione in cui tutti la pensano allo stesso modo è una setta, non un’azienda.
La gestione della diversità si deve concentrare anche su questa tipologia di differenze, riconoscendo le varie tribù presenti all’interno dell’organizzazione e potenziando ciò che di positivo queste associazioni di persone e di idee possono portare alla collettività (leggi: all’azienda).
Borders are good. Just eliminate the passports and give permission to cross.
– Leandro Herrero –
La sempre citata comunicazione interna – che sembra una divinità d’altri tempi: venerata, nominata e, soprattutto, assolutamente invisibile – non deve essere un piccone. Se fatta bene, in maniera funzionale, la comunicazione interna serve a ridistribuire le pressioni, affinché l’osmosi tra i vari gruppi resti sempre equilibrata.
In caso contrario, possiamo avere degli splendidi, colorati, vivaci collaboratori da atollo tropicale che vengono immersi nella vasca diluita della cultura aziendale. Il risultato osmotico è che il pesce d’acqua salata in acqua dolce assorbe troppi liquidi finché le proprie cellule – splash – esplodono.
Letteralmente.
Cosa ne pensi?
All’età di tre anni ho deciso di diventare vegetariano; in seconda elementare, la maestra ha convocato i miei genitori perché “non era normale” che un bambino conoscesse tutti i nomi dei funghi in latino; a 13 anni ho amato per la prima volta senza sapere che non era amore; a 15 ho smesso di fare decathlon perché odiavo la competizione; ancora minorenne, sono stato processato da una corte marziale. A 20 anni mi sono sposato e a 23 ho divorziato; a 25 anni dirigevo una start-up che ho fatto fallire; a 29 ho avuto la meningite, sono morto ma non ho saputo restarlo. A 35 anni ho vissuto una relazione poliamorista e sono diventato padre di figli di altri. A 42 mi sono licenziato da un posto fisso, statale e ben pagato per fondare l’Agenzia per il Cambiamento Purple&People e la sua rivista Purpletude. A parte questo, ho 20 anni di esperienza nelle risorse umane, ho studiato a Ginevra, Singapore e Los Angeles, ho un master in comunicazione e uno in digital transformation e ho tenuto ruoli manageriali in varie aziende e in quattro lingue diverse: l’ONG svizzera, la multinazionale francese, le società americane quotate in borsa, la non-profit parastatale. Mi occupo soprattutto di comunicazione del cambiamento, di organizzazioni aziendali alternative e di gestione della diversità – e scrivo solo di cose che conosco, che ho implementato o che ho vissuto.