All’età di tre anni ho deciso di diventare vegetariano; in…
La lista delle cose che fanno più paura alle persone include essere sepolto vivo, cadere in una stanza piena di ragni/serpenti/topi e… parlare in pubblico.
È una informazione che mi torna sempre in mente quando mi preparo per un evento dove sarò dalla parte più scomoda del palco, ovvero quella illuminata a giorno. Nel caso specifico, l’occasione è data dal Fuffa Day, che si terrà alla Microsoft House di Milano il 16 novembre 2018.
Tra i relatori ci sarò anch’io e, con il mio socio Davide, parleremo delle parole che non sentiamo e di quelle che non capiamo, o capiamo male: viviamo in un mondo di incomprensione esponenziale, nel quale i social media hanno amplificato la nostra voce ma con lei anche il rumore di fondo, che è diventato assordante e nuoce alla qualità degli scambi.
Ma questa sarebbe una storia diversa e ne riparleremo quindi un’altra volta.
Oggi, invece, mi ero ripromesso di approfondire gli aspetti legati al parlare in pubblico: le paure, le esperienze e qualche trucchetto per riuscire a far passare il proprio messaggio senza troppi danni.
Comincerei subito con una buona e una cattiva notizia.
Quella buona è che la maggior parte delle statistiche che troverete su internet sono esagerate e senza fondamento scientifico. Ad esempio, leggerete che almeno 3 persone su 4 hanno paura di parlare in pubblico. Ma vi sfido a trovare la fonte di questo dato: non c’è.
La brutta notizia è che esiste invece una forma clinica, definita glossofobia, che colpisce tra l’8% e il 15% delle persone, a dipendenza del Paese e della cultura, e che è classificata come un disordine di ansia sociale.
Che cos’è l’ansia sociale?
L’ansia sociale è un disturbo caratterizzato da ansia significativa indotta dall’esposizione a determinate situazioni interpersonali o di prestazione in pubblico, nelle quali l’individuo è esposto al possibile esame degli altri. In pratica: vai in panico quando devi fare qualcosa davanti agli altri.
Rientrano in questa categoria, quindi, suonare o cantare in pubblico, recitare a teatro, ma anche semplicemente fare un brindisi al matrimonio della propria figlia.
Parlare in pubblico è la forma più importante di fobia sociale: gli studi hanno evidenziato che circa il 90% dei soggetti ai quali è stato diagnosticato un disordine d’ansia sociale hanno paura di parlare in pubblico (da cui probabilmente l’impressione che sia la cosa che le persone temono di più dopo la morte).
I miei 5 consigli per superare la glossofobia
Eppure il nervosismo è normale: il fatto di sentire battere e accelerare il proprio cuore o avere le gambe che tremano sono reazioni fisiologiche. Reazioni, tra l’altro, fatte per salvarci la vita: il cuore pompa sangue, l’adrenalina sale, i muscoli guizzano, e questo ci permette di… scappare più veloce dal palco? Ecco, no: l’idea è che dovrebbero permetterci di fornire una prestazione migliore.
1. Interpreta il nervosismo come una preparazione
Non dobbiamo associare queste reazioni (oltretutto preventive) al fatto che non parleremo bene o faremo brutte figure.
Impariamo invece ad ascoltare il nostro corpo che ci parla e ci sta dicendo che siamo pronti a memorizzare il discorso, che siamo predisposti a sentire meno quel dolorino alla schiena e che quindi per i prossimi trenta minuti saremo perfettamente a nostro agio sul palco e, soprattutto, ringraziamolo che ci sta dando l’energia necessaria da trasmettere a chi ci ascolta.
In pratica, si tratta di spingere il nostro pensiero dall’interpretare certi segni come negativi a trasformarli in elementi che sottintendono l’entusiasmo di essere pronti a dare il meglio di noi.
2. Parla a una sola persona
Uno degli aspetti che destabilizza di più è il fatto non tanto di parlare in pubblico ma di trovarsi di fronte a tante, troppe persone. Invece non c’è differenza: 4, 40 o 400, la taglia non conta. Può avere un impatto su degli aspetti tecnici, come ad esempio il bisogno di utilizzare un microfono per farsi sentire, oppure dover prevedere in anticipo che alcuni ranghi saranno lontanissimi dallo schermo e che quindi le slide dovranno tenerne conto. Ma sul fatto di parlare in pubblico, no.
La strategia per superare la paura è quella di considerare che stiate parlando con una persona sola. Anzi, direi di più: che state facendo una conversazione. Non state proclamando, state interagendo con un solo grande corpo: il vostro pubblico.
3. Ripeti dopo di me: Non sono l’ombelico del mondo
Alcune persone hanno paura di apparire nervose.
L’idea è che se il pubblico noterà il tuo nervosismo, capirà che non sei abbastanza preparato o penserà che non sei all’altezza.
Allora, due cose: la prima, rileggiti il titoletto di questo consiglio, che poi ne riparliamo; la seconda, è che se tu vedessi uno speaker un po’ nervosetto sul palco, cosa penseresti? “Poveraccio, non vorrei essere nei suoi panni”. Appunto: è un pensiero di simpatia, di comprensione. Non c’è veramente nulla di strano a essere nervosi e le persone questo lo sanno.
Se, nonostante ciò, ti rimane la paura di essere giudicato, ripeti dopo di me: non sono l’ombelico del mondo. Perché, onestamente, pensi che il pubblico sia interessato a esprimere un giudizio su di te? Che gliene importi veramente qualcosa di te?
Io, quando vado a una conferenza, sono lì per imparare qualcosa. Cerco qualcosa di positivo da portarmi a casa, e di sicuro non sono venuto per giudicare le persone che parlano.
Ai tempi dell’Università, ricordo di aver fatto una presentazione che andò malissimo. Mi ero preparato meno di zero. Non avevo neanche finito di leggere il libro del quale dovevo parlare in classe. Fu imbarazzante? Sì. Mi sentii giudicato dai compagni? Onestamente, mi sembrarono più sofferenti e in imbarazzo di me. Mi guardavano come a cercare di sostenermi, di aiutarmi, di suggerirmi qualcosa da dire.
Non preoccuparti quindi di essere giudicato per un’eventuale brutta figura, perché a nessuno piace vedere gli altri fallire (ma se sei invece uno di questi, l’ansia sociale è l’ultimo dei tuoi problemi, detto fra noi).
4. Preparati bene, anzi: meglio
E l’esempio di poco fa mi porta al punto più banale ma anche più importante: la preparazione è fondamentale per potersi sentire a proprio agio. Non essere pronti, non aver preparato la propria presentazione, non ha nulla a che vedere con il parlare in pubblico: è una mancanza più grave, che ha a che fare con il proprio lavoro e con il rispetto per gli altri, quelli che sono venuti ad ascoltarti (e che magari hanno anche pagato per sentirti).
Quindi: provare più volte il proprio discorso, chiedere a qualcuno di ascoltarci e di farci critiche costruttive e, non da ultimo, verificare sempre gli aspetti tecnici (il PowerPoint finito in treno trenta minuti prima della presentazione non è mai una buona idea).
5. Sii te stesso
Premesso che, per alcune persone che conosco, questo sarebbe il peggior consiglio di sempre, a mio avviso è importante restare naturali e far uscire la propria personalità.
Per diversi motivi: da una parte, per evitare l’effetto cartongesso costruito che, inevitabilmente, mette una barriera tra chi parla e il suo pubblico; dall’altra, perché è più facile restare calmi quando non si deve fingere, e quindi degli aneddoti personali, delle piccole storie, dei gesti tipicamente nostri, vengono solitamente apprezzati dal pubblico e contribuiscono a rendere più disteso l’ambiente.
Il fatto di essere noi stessi non deve però farci dimenticare che… ripeti dopo di me? Non siamo l’ombelico del mondo: in fase di preparazione, dobbiamo pensare a chi sarà il nostro pubblico. Dobbiamo sapere qualcosa di loro, del perché sono venuti all’evento, cosa li motiva, cosa li interessa. La nostra presentazione non parla di noi, parla a loro, al nostro pubblico.
Una questione di soldi (anche)
Al di là degli aspetti puramente legati all’atto di parlare in pubblico, la glossofobia può avere un impatto importante sulla propria carriera.
Uno studio del 2005 della Columbia University, ormai un po’ datato ma sempre d’attualità, ha evidenziato che le persone con un reale disordine di ansia sociale hanno il 15% in meno di possibilità di accedere a delle posizioni manageriali in azienda. E questo già in aggiunta al 10% di possibilità in meno di finire l’Università.
Considerato il fatto che il 90% delle persone affette da ansia sociale ha anche paura di parlare in pubblico, possiamo riportare queste percentuali in maniera quasi identica all’impatto che la glossofobia può avere sulla carriera di una persona. E di conseguenza sulla sua vita: infatti, sempre secondo lo stesso studio, le persone con questo tipo di disturbo guadagnano 10% in meno degli altri.
Seguire dei corsi…
I corsi sul public speaking sono ormai molto diffusi.
Come spesso accade per tutti gli argomenti che, a un certo punto, diventano importanti perché di moda, la qualità dei percorsi proposti e la credibilità dei formatori possono variare in modo significativo.
Nonostante ciò, per chi non ha mai fatto un training formale sull’argomento, penso che un corso di questo tipo possa aiutare per lo meno ad essere più sensibili a determinati aspetti del parlare in pubblico. Più siamo coscienti e più possiamo lasciare andare. Una specie di pratica zen del public speaking, insomma.
Ci sono comunque diversi trucchetti pratici che si possono imparare, alcuni dei quali sono immediati mentre altri richiedono più tempo. Uno di questi è sicuramente l’apprendimento e il controllo della respirazione diaframmatica. Come per il canto o per il teatro, anche per parlare in pubblico è essenziale saper gestire il proprio fiato. Io, ad esempio, non riesco a farlo: sono uno che respira di pancia e agisce di conseguenza. Ma con l’allenamento si possono raggiungere buoni risultati.
…e trovare i propri rituali
A dire il vero, più di qualsiasi formazione, chi mi ha veramente aiutato a superare la mia paura di parlare in pubblico, nonostante il mio tono di voce ancora oggi pacatissimo (monocorde e basso), è stata… mia zia Amelia.
La zia Amelia viveva negli Stati Uniti, dove era emigrata subito dopo la guerra (mantenendo dell’Italia un ricordo assolutamente irreale, ma anche questa è un’altra storia). Aveva aperto un ristorante italiano nel New England, non molto lontano da Boston. Io di solito passavo l’estate da lei e una sera, rientrando, ho trovato la porta sul retro chiusa a chiave.
Per poter andare in camera mia, dovevo quindi passare dalla porta principale del ristorante, che era sempre pienissimo. Entrai discretamente, attraversai tutto il salone e, quando ero ormai vicino all’entrata del mio appartamento, trovai mia zia paonazza, con il coltello in mano, puntato verso di me.
Quando era in cucina aveva sempre un’aria vagamente diabolica, ma in quel momento ce l’aveva con me. Agitando il coltello, con quel suo accento italo-americano che mischiava le due lingue, mi chiese cos’era “quella cosa lì”. Il fatto che avevo attraversato il ristorante timidamente, veloce e a testa bassa.
“Tu sei bello, sei intelligente, parli 5 lingue e sei mio nipote. Adesso torni indietro, e ti rifai tutta la sala a testa alta!”, mi intimò.
E io eseguii.
Ancora oggi, ogni volta che mi sto preparando a parlare in pubblico, chiudo gli occhi per qualche secondo e rivedo quel coltello svolazzarmi sotto il naso e sento l’odore di cipolla e di ziti e di melanzana della cucina del Mama Valente’s.
Sento la voce di mia zia, faccio il vuoto, alzo la testa, sorrido sicuro di me e… entro in scena.
Cosa ne pensi?
All’età di tre anni ho deciso di diventare vegetariano; in seconda elementare, la maestra ha convocato i miei genitori perché “non era normale” che un bambino conoscesse tutti i nomi dei funghi in latino; a 13 anni ho amato per la prima volta senza sapere che non era amore; a 15 ho smesso di fare decathlon perché odiavo la competizione; ancora minorenne, sono stato processato da una corte marziale. A 20 anni mi sono sposato e a 23 ho divorziato; a 25 anni dirigevo una start-up che ho fatto fallire; a 29 ho avuto la meningite, sono morto ma non ho saputo restarlo. A 35 anni ho vissuto una relazione poliamorista e sono diventato padre di figli di altri. A 42 mi sono licenziato da un posto fisso, statale e ben pagato per fondare l’Agenzia per il Cambiamento Purple&People e la sua rivista Purpletude. A parte questo, ho 20 anni di esperienza nelle risorse umane, ho studiato a Ginevra, Singapore e Los Angeles, ho un master in comunicazione e uno in digital transformation e ho tenuto ruoli manageriali in varie aziende e in quattro lingue diverse: l’ONG svizzera, la multinazionale francese, le società americane quotate in borsa, la non-profit parastatale. Mi occupo soprattutto di comunicazione del cambiamento, di organizzazioni aziendali alternative e di gestione della diversità – e scrivo solo di cose che conosco, che ho implementato o che ho vissuto.