
Padre di Violante e marito di Tania. Divido la mia…

Valentina Maran è nata a Varese nel 1977. È una…
Se si dovesse elencare una lista di pregi e difetti di internet, ce ne sarebbe uno specifico, tra i tanti, che si posiziona da entrambi i lati: l’assenza di un unico controllore.
Da una parte, la mancanza di una realtà panottica globale nella rete crea una idea di libertà dove ognuno può scrivere il suo pensiero sotto forma di articolo, tweet, foto e post (ne abbiamo parlato nell’articolo sul Femtech).
Dall’altra, tutta questa libertà può portare – e sentirsi autorizzati a – scrivere pensieri offensivi, provocatori e assolutamente fuori luogo.
Ne è un esempio una forma estrema di sessismo che domina la rete, facendo trasparire un odio nei confronti delle donne che raggiunge livelli veramente preoccupanti.
I leoni da tastiera
Inizialmente le offese online non erano inquadrate dal nostro ordinamento giuridico – le offese scritte valevano per carta stampata o vergata a mano, ma non per quelle online.
Questo buco legislativo ha permesso a lungo alle persone di non andare incontro ad alcun tipo di conseguenza. Questo “cortocircuito” della libertà di espressione ha permesso alle persone di nascondersi dietro una tastiera per dare sfogo a commenti negativi che, altrimenti, sarebbero rimasti probabilmente solo nei loro pensieri.
Sono i “leoni da tastiera” che prolificano in rete, salvo poi diventare mansueti come agnellini quando vengono stanati e presi contropiede dal vivo dalla persona insultata (se vi capita cercate online qualche registrazione di Selvaggia Lucarelli che al telefono è riuscita a parlare con alcuni dei suoi odiatori – in rete ferocissimi e intervistati dal vivo assolutamente pronti a scusarsi e a pentirsi dell’accaduto).
In una società come quella italiana ancora estremamente patriarcale, il web rispecchia in rete quello che le persone sono nella vita reale.
Ed ecco quindi emergere una lunga serie di problematiche dovute al sessismo, e a questo bisogno di digitare un commento di odio nei confronti di articoli, testi, foto o post pubblicati da una donna.
Donne al centro dell’odio
Secondo le statistiche le vittime maggiori di questo “hate speech” (si chiama così la pratica di dedicare ingiurie e insulti online) sono le donne.
Gli esempi negativi purtroppo sono molti e non si sottrae nessuna figura, istituzionale o meno.
Lo sa bene l’ex-presidentessa della Camera dei deputati Laura Boldrini che per diverso tempo ha ricevuto minacce ed offese di una violenza preoccupanti e che ha raccolto in un post piuttosto raccapricciante.
Discutere e confrontarsi su idee politiche diverse è giusto e doveroso, in questo caso però si oltrepassa la linea della ragione e dell’intelligenza.
Anche la nostra Samantha Cristoforetti si è vista commentare con le classiche esclamazioni maschiliste nel momento più importante della sua carriera, quando cioè è partita per la sua avventura nello spazio.
Greta Thunberg, la giovane attivista dell’ambiente, si è vista dire e scrivere di tutto su diverse pagine web, comprese quelle di famosi giornalisti italiani, che l’hanno soprannominata “Gretina”, dimenticandosi forse che stanno dando della cretina per assonanza a una minorenne.
E questi sono solo alcuni degli esempi più eclatanti.
Moltissime donne, quotidianamente, vengono apostrofate con frasi o commenti di uomini, ma anche di altre donne, che vomitano odio.
La responsabilità dei social media
D’altro canto anche le piattaforme sociali stesse ci mettono del loro per aumentare le tensioni già esistenti, ad esempio Instagram, nelle sue linee guida della community, indica chiaramente che sono vietate le foto di qualsiasi tipologia di nudo, “incluse anche le foto di capezzoli femminili, mentre sono accettate le foto di cicatrici causate da una mastectomia e donne che allattano al seno”.
Questo pone una domanda molto semplice a cui ancora non si ha una risposta: perché i capezzoli maschili vanno bene mentre quelli femminili no?
L’osservatorio italiano sui diritti Vox ha pubblicato la quarta edizione di uno studio, intitolato “La mappa dell’intolleranza” che va ad analizzare una serie di tweet basati sui messaggi di odio.
La versione 4 esamina il periodo che va da marzo a maggio 2019 nella piattaforma Twitter, confrontando circa 215.300 mila tweet e scoprendo che più di 151.000 sono negativi.
All’interno di questa analisi si è visto che sono diverse le categorie prese di mira dagli haters: donne, omosessuali, migranti, diversamente abili, ebrei e musulmani.
Purtroppo il riscontro è molto negativo, con un aumento di tweet che fomentano l’odio su tutta la linea, soprattutto nei confronti delle utenti della piattaforma.
È stato rilevato che, sul 100% dei tweet analizzati riguardanti hashtag o argomentazioni che comprendessero il sesso femminile, ben il 72% è negativo, con un aumento dell’1,7% rispetto al 2018.
Le città italiane con maggior incidenza sono Milano e Roma.
Ma di chi è la colpa?
Indubbiamente si tratta di un gap culturale, di un trascorso patriarcale che ancora viene inculcato nelle nuove generazioni e senz’altro del clima politico, che sta sdoganando gli atteggiamenti da bulli in rete.
Basti pensare al Ministro degli Interni che attraverso i suoi “bacioni” fomenta la sua fanbase contro internauti colpevoli di twittare o postare pensieri e commenti a lui sgraditi, senza preoccuparsi di censurarne le identità, anzi – veicolando attraverso i suoi baci da Giuda una carica di odiatori fuori dal comune.
La mancanza di cultura dei media chiude il cerchio, anche se esiste una netiquette condivisa da chi da tempo utilizza in modo etico internet – delle regole di buon uso e buone maniere che è facile anche trovare online e che sono dettate prima di tutto dal buon senso del vivere civile.
Esiste anche una sorta di carta deontologia – Parole Ostili – che ha raccolto numerosi firmatari e che invita a un uso più consapevole delle parole in rete.
Odiare ti costa
Fino a pochi giorni fa l’unica cosa che si poteva fare se si ricevevano minacce o parole di odio e diffamatorie era denunciare, ma ovviamente la trafila e la sola idea di cominciare con avvocati, esposti e tutta la panoplia era motivo di abbandono dell’impresa.
Ora è stato istituito “ODIARE TI COSTA” – un gruppo di attivisti hanno fondato questa realtà che si occupa di raccogliere e portare di fronte a un giudice le ingiurie. Il fine è riuscire a trarre guadagno dalle offese, facendosi giustamente risarcire per l’odio subito.
Un modo sensato di ritrovare tramite la giustizia il proprio diritto ad essere in internet insieme a persone civili in modo civile.
Sarà interessante tra qualche tempo avere una statistica delle cause vinte e soprattutto dei risarcimenti ottenuti.
Voi avete ricevuto offese online e sui social? Come vi siete difesi?
NowPlaying:
Hate To See You Go, The Rolling Stones
Cosa ne pensi?

Padre di Violante e marito di Tania. Divido la mia vita tra l’insegnamento di informatica e lo studio universitario. Amo follemente la tecnologia di cui ne seguo quotidianamente le nuove uscite, le novità ma sopratutto l’impatto che questa ha nella società. Non mi parlate di motori e gioco del pallone, vi guarderei senza capire una virgola del vostro discorso. Infine mi piace fotografare il caffè, in tutte le sue versioni e situazioni, oltre che a berlo ovviamente.

Valentina Maran è nata a Varese nel 1977. È una copywriter freelance. Si è formata nelle più grandi agenzie di comunicazione milanesi e dopo un trionfale licenziamento ha scritto “Premiata Macelleria Creativa” (Fandango 2011). Scrive per riviste, committenza privata, blog di ogni tipo e si occupa prevalentemente di questioni di genere, femminismo, parità di diritti nella comunicazione. Con la sua socia Vanessa Vidale ha una piccola agenzia di comunicazione che si chiama NoAgency dalla quale non può licenziare nessuno, tranne se stessa. Da anni è docente in corsi ITS e IFTS post diploma dove insegna creatività.