Sono un umanista in rete. Nasco analogico e cresco digitale.…
È il momento. Anna la tiene d’occhio da una mezzora, mentre fa la spola tra un paziente e l’altro. Ha spiato i segni che preannunciano la ripresa; l’esperienza maturata nelle ultime settimane l’aiuta a stanare la vita anche nell’anfratto più improbabile. La paura del Coronavirus è servita anche a questo, ad affinare i sensi senza l’indifferenza dell’abitudine.
La signora Rachele adesso è vigile, le iridi hanno ripreso turgore e la seguono nei suoi movimenti repentini.
All’ennesimo passaggio davanti al suo letto, Anna pianta i propri occhi nei suoi. Ha imparato a comunicare soltanto con lo sguardo, sorridere dietro una mascherina è tempo perso.
L’anziana le risponde con un’alzata flebile di sopracciglia.
Sì, è il momento.
Anna si ferma al suo fianco. Solleva quella sorta di pastrano in plastica che è costretta a portare sopra il camice, quel poco che basta per sfilare lo smartphone dai pantaloni. Guarda fissa negli occhi la donna come a chiederle ci siamo, lo facciamo?
Rachele annuisce e con un piccolo sforzo cerca di assestarsi più in alto sul letto. Si scosta la mascherina dalla bocca, l’aspetta.
Anna si guarda intorno, vuole essere sicura che nessuno la veda. Con un movimento rapido della mano sinistra rompe il guanto della mano destra, una piccola fessura sull’indice che le consente di estrarre il polpastrello.
Sblocca il telefono, un paio di tap fulminei sullo schermo e l’apparecchio è già all’orecchio della signora Rachele.
“Nonna!”
Dopo un attimo di incredulità, all’altro capo risponde una voce squillante. Undici-dodici anni o forse meno.
“Giulia, come stai?”
L’anziana si sforza di parlare normalmente, il getto del respiratore è troppo vicino alla bocca e copre quasi del tutto la sua voce. Sembra che qualcuno abbia lasciato il telefono accanto alla moka un attimo prima che coli il nero bollente del caffè.
Anna se ne accorge e con un gesto rapido le allontana la mascherina dal volto. I suoi occhi rimbalzano continuamente da Rachele al corridoio.
“Nonna, lo sai? Hanno chiuso le scuole, anche mamma e papà non vanno più al lavoro. È tutto così strano… Mamma mi aiuta a fare i compiti, non posso più vedere le miei amiche.”
“Lo so, tesoro. Lo so.”
“Come stai, nonna? Quando torni a casa?”
“Qui si prendono cura di me… Ci vorrà ancora un pochino.” L’anziana allontana il telefono dalla bocca, un colpo di tosse glielo fa scivolare sul letto.
Anna interviene all’istante. Glielo riposiziona all’orecchio mentre con una mano le tiene distante la mascherina.
“Nonna? …Nonna?”
“Giulia, dimmi di te. Che stai facendo?”
“Nonna, hai sentito i telegiornali? Non possiamo più uscire, forse andremo a scuola d’estate. Mamma e papà non sanno quando finirà. Ho paura, nonna… anche le mie amiche hanno paura.”
“No, Giulia, no… Devi solo aspettare, fai quello che ti dicono mamma e papà, e porta pazienza.”
“Nonna, ma quando torni?”
“Giulia, ascoltami, non so quando potremo risentirci… Te lo ricordi?”
“Che cosa, nonna?”
“Ti ricordi che ti voglio bene? Te lo ricordi, vero?”
“Ma sì che me lo ricordo, nonna! Anch’io ti voglio bene. Ma quando torni a casa?”
Nel corridoio un rumore metallico, come di cose che sobbalzano su un carrello. Anna fissa negli occhi la signora Rachele spalancando i suoi.
“Promettimi una cosa, Giulia.”
Anna solleva leggermente lo smartphone dall’orecchio dell’anziana, non resta altro tempo.
“Promettimi di non aver paura.”
“Va bene, nonna. Te lo prometto.”
“Devo lasciarti adesso, ci sentiremo presto… Non aver paura, Giulia.”
Anna sfila via il telefono dal volto dell’anziana e riposiziona la mascherina al suo posto. Quando la collega entra nella stanza, è nascosto tra gli oggetti di Rachele al lato del letto.
Lo recupererà appena possibile per sterilizzarlo. In quelle circostanze restare umani è un rischio ma una promessa è una promessa, e ne ha già visti portare via troppi in quell’assurda bolla di solitudine, silenzio e disinfettante.
La bolla del Coronavirus
Accendo il tg mentre faccio colazione: in quella tetra parata di camion militari nella notte c’è anche lei.
La signora Rachele è riuscita a esaudire quel suo ultimo desiderio grazie al coraggio indisciplinato di un’infermiera, Anna. Una telefonata alla nipote Giulia.
I nomi, naturalmente, sono di fantasia. Ma non lo è la vicenda, riportata in sordina da uno dei tanti giornalisti troppo impegnato a restituirci numeri trend e interventi politici.
Non mi colpisce più il bollettino giornaliero di contagiati e morti che ogni mattina scorro ormai distratto, come faccio con gli analytics dei siti web che per lavoro monitoro quotidianamente. Tutto diventa abitudine, anche la pandemia. Questa storia, però, mi ha colpito profondamente; a questo, fino a oggi, non avevo proprio pensato.
Divido le mie ore tra smart working e faccende domestiche, in pochi metri quadrati senza giardino da curare né cani da portare in giro; eppure le mie giornate sono più indaffarate di prima. Sono chiuso in una bolla e volteggio sulla realtà grazie alla radio, alla tv, al web.
Alla possibile assolutezza di questa nostra momentanea solitudine non avevo proprio pensato.
Ho paura del Coronavirus
Se ho paura del Coronavirus? Certo, che ne ho.
Ho paura di questa inedita disumanità che ci condanna a vivere distanti e morire soli. Certo, è un sacrificio necessario a ridurre il contagio, dicono i medici.
Entrati nell’età adulta, più o meno tutti abbiamo fatto esperienza della morte, le abbiamo dato un volto. Conosciamo la fisiologia di un corpo che si spegne, sappiamo quali sensazioni generi in chi resta e che cosa sia necessario fare. Ma, ogni volta che abbiamo dovuto farci i conti, abbiamo sempre trovato una rete di rapporti umani pronta a far fluire anche il più profondo e insensato dei drammi nell’ordine naturale delle cose. Le lacrime, gli abbracci, le parole ci hanno sempre salvato.
Stavolta no, stavolta siamo davvero soli, ognuno ad affrontare il proprio destino a distanza. Il Coronavirus è il peggiore dei mostri perché ci trasforma in un pericolo per gli altri anche in punto di morte. Ci costringe a piangere in solitudine. Nemmeno il più spietato dei narratori vorrebbe chiudere una storia così.
L’unica comunicazione che adesso conta
Ecco perché ho voluto parlarti di questa vicenda.
Perché se è certo che anche l’emergenza Covid-19 passerà come passa ogni vicenda umana, restare chiusi in casa non basta più.
Non basta cantare ai balconi. Non basta dare la caccia ai runner sui social. Non basta inondare la rete di video in diretta e di contenuti gratuiti, nella speranza di tenersi i clienti e il posto di lavoro. Stiamo sbagliando obiettivo.
Dobbiamo restare umani, lavorando duramente per ridurre le distanze imposte dalla pandemia e concentrandoci sui rapporti personali. La paura è legittima e sacrosanta ma non deve impedirci di restare lucidi e, soprattutto, di reagire. Ora che la tempesta soffia al suo massimo è tempo di buttare a mare tutte le inutili zavorre, razionalizzando le risorse per mantenere viva l’unica comunicazione che conta.
I mezzi non ti mancano e nemmeno il tempo.
Promettimi che lo farai, promettimi di non aver paura del Coronavirus.
Cosa ne pensi?
Sono un umanista in rete. Nasco analogico e cresco digitale. Mi occupo di comunicazione e marketing, e sono fermamente convinto che una storia aggiunga sempre valore a prodotti, aziende e persone. Credo nel potere delle parole e delle immagini. Credo negli imprenditori illuminati e nell'umanesimo come filosofia di vita. Nel tempo libero mi nutro di cultura, fotografia, natura e archeologia.
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