
Valentina Maran è nata a Varese nel 1977. È una…
Ho appena prenotato due visite mediche in un centro specialistico. Una per me e una per mio figlio.
Sempre oggi, dal dentista oltre alla mia pulizia dei denti, ho anche pianificato gli appuntamenti per mio figlio.
Appena rientrata mi sono ricordata delle caramelle da portare all’asilo per il suo compleanno. Devo anche ricordarmi di iscrivere la grande in piscina domani e pianificare la sua visita medico sportiva.
C’è in ballo anche il regalo da impacchettare che sta nell’armadio e ancora non ho fatto in tempo perché ho questo articolo da scrivere e dei radio da consegnare urgentemente, ho anche un appuntamento il pomeriggio e starò via fino a questa sera.
Normale routine, direte voi?
Insomma, perché nonostante io sia una freelance e possa decidere come giostrarmi il lavoro, in automatico tutto quello che riguarda i figli passa sempre sulle pagine della mia agenda, non su quella di mio marito? Per lui è normale arrivare a casa e chiedermi se ho sentito la pediatra per la febbre del piccolo o se ho ritirato in comune la carta di identità rifatta.
La cosa bizzarra è che lui è libero professionista tanto quanto me e con un’agenda altrettanto elastica.
E quindi?
La routine che logora
Noto che molto spesso – anche parlando con le amiche – noi donne veniamo delegate dai nostri compagni a fare tutto quello che riguarda la gestione della casa e dei figli. In toto.
La domanda frequente che lui mi fa è: L’ho fatto? Ci ho pensato? Ho eseguito?
Anche colpa nostra (mia, in questo particolare frangente) se non deleghiamo e se continuiamo ad andare avanti come trattori.
Se faccio lo schema di una mia giornata tipo comincia con la sveglia, mi alzo, doccia, poi sveglia bambini, li preparo, colazione, mio marito prepara la merenda per la scuola, poi lui porta la grade e io un’ora dopo il piccoletto all’asilo.
In quei 60 minuti io rifaccio tutti i letti, do una passata di disinfettante al bagno, se c’è da stendere stendo o carico la lavatrice, svuoto la lavastoviglie se è piena, la riempio se ci sono piatti in giro, pulisco la sala e rassetto per dare una parvenza di normalità alla casa.
Poi, una volta consegnato il piccolo all’asilo, torno e comincio a lavorare.
Non faccio mai tutto in modo lineare: se sto facendo una cosa e incappo in qualcos’altro, mi fermo e comincio anche l’altro lavoro per paura di dimenticarmene. Stacco giusto all’ora di pranzo, poi riprendo fino a sera con varie pause per il ritiro dei figli a scuola. La sera, per chiudere in bellezza, può essere che debba anche stirare.
Ma almeno la cena la prepara sempre lui.
Tutto qui?
No, perché ogni volta che c’è qualcosa, dalla bolletta da pagare al veterinario per il gatto, immancabilmente viene infilato nella mia agenda.
Perché?
Perché evidentemente si pensa che il mio lavoro sia più semplice (vai poi a capire perché) – o l’aspettativa in automatico è che io lo possa fare.
Non mi sono mai sentita dire “ci penso io”.
Mi sento continuamente dire “pensaci tu” e io lo faccio, sia per non dover litigare, sia perché il più delle volte lui finisce col dimenticarsene, o fa le cose male, e io tendo a non tollerarlo. Mi rendo conto che non delego anche perché se il lavoro non viene fatto come dico io, la prendo sul personale. Non riesco a concepire che l’altro possa averlo fatto secondo una sua metrica. O è la mia, o non va bene.
E allora faccio io.
La stanchezza dei generi
Il carico mentale è questa cosa: questa mia colpevole incapacità di delegare.
E di mancanza di accettare le deleghe dall’altra parte.
È il dare per scontato che uno dei due se ne occupi, e il più delle volte è la donna.
In Italia ancora la maggior parte delle donne fa come me e si addossa tutto il peso dei lavori domestici.
Spesso quando si comincia la vita di coppia in automatico l’aspettativa è che sia la donna a occuparsi della casa e dei figli, indipendentemente dal fatto che partecipi comunque alla vita economica della coppia.
Vai a sapere perché la stanchezza del maschio è più stanchezza di quella di una donna.
La dipendenza che snerva
Il più delle volte ci si sente dire “ma io lavoro!” quando si chiede di partecipare alle fatiche casalinghe, come se noi invece fossimo pagate per divertirci.
Oppure, grande proposta di solito è “dimmi cosa devo fare”. È una frase che tende a farmi innervosire molto, perché ve lo dico, non ho il tempo di stare a fare anche elenchi a chi vive con me: lo dovrebbe sapere che cosa c’è da fare in casa.
La regola in questi casi è semplice: se qualcosa è fuori posto rimettilo a posto, se qualcosa è sporco, puliscilo, se qualcosa va sistemato, sistemalo.
Se qualcosa va fatto, fallo.
Non servono elenchi, perché guarda caso toccherebbe sempre a noi donne stilarli.
E oltre all’immane mole di cose che già ci addossiamo, ci toccherebbe pure quella, con l’altissima probabilità di trovarsi i lavori fatti male.
Perché una cosa è fare, e una cosa è fare bene.
È l’amore, bellezza
Quello di cui non mi capacito soprattutto perché lo vivo tutti i giorni sulla mia pelle è come si possa vivere in una casa avendo attorno una persona che fa tutto pensando di non chiedere mai “posso fare qualcosa?”.
A mo’ di ospite coccolato, come se la casa non fosse la propria.
Ma non abitiamo insieme?
Perché c’è l’aspettativa di essere accuditi? L’amore non dovrebbe essere ambivalente? Tanto quanto si ricevono attenzioni, se si ama davvero quelle stesse attenzioni, si dovrebbero riversarle in egual misura ed egual intensità sull’altro?
È amore delegare sempre all’altro?
È amore non accorgesti della fatica?
È amore dire “dimmi cosa devo fare” senza prendere mai l’iniziativa?
Uomo avvisato…
Un consiglio se siete i classici uomini che stanno sul divano col telefonino mentre la vostra compagna fa tutto o comunque la maggior parte delle cose in casa: meglio che schiodate le chiappe e cominciate un po’ a darvi da fare.
Perché quegli sbuffi che ogni tanto sentite, quel “non sono mica una cameriera!” ripetuto talmente tante volte che ormai non ci fate più caso, sotto sotto racchiudono piccole gocce di rancore che giorno dopo giorno fermentano e un giorno esploderanno col botto esattamente come una bottiglia di champagne. Ma a quel punto l’unica cosa da festeggiare sarà il divorzio.
Voi delegate? Fate a metà con gli impegni? O vi ritrovate pure voi a sentirvi dire “fallo tu”? Quanto vi fa rabbia dover pensare a tutto?
Cosa ne pensi?

Valentina Maran è nata a Varese nel 1977. È una copywriter freelance. Si è formata nelle più grandi agenzie di comunicazione milanesi e dopo un trionfale licenziamento ha scritto “Premiata Macelleria Creativa” (Fandango 2011). Scrive per riviste, committenza privata, blog di ogni tipo e si occupa prevalentemente di questioni di genere, femminismo, parità di diritti nella comunicazione. Con la sua socia Vanessa Vidale ha una piccola agenzia di comunicazione che si chiama NoAgency dalla quale non può licenziare nessuno, tranne se stessa. Da anni è docente in corsi ITS e IFTS post diploma dove insegna creatività.