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Figli del principale crescono. Anzi no!

Figli del principale crescono. Anzi no!

Ci sono un americano e due italiani… (certe storie iniziano sempre così)

Si conoscono un’estate di fine anni Novanta: tutti e tre ventenni, tutti e tre ricchi figli di imprenditori di successo, tutti e tre a viversi l’estate del giro di boa: quello che sancisce la fine dell’adolescenza e l’ingresso nell’età adulta; l’età delle scelte e delle prime assunzioni di responsabilità. Si chiamano Bob, Dario e Luca.
Passano insieme una bella vacanza, di quelle che la giovane età, qualche trasgressione e una buona compagnia rendono memorabile. In quel momento si sentono uguali: giovani, ricchi e con un futuro già spianato davanti. Promettono di tenersi in contatto e di ripetere la loro memorabile vacanza da lì a vent’anni.

Poi, come spesso accade, le vicende della vita hanno il sopravvento e dopo i primi mesi si perdono di vista.
Ognuno procede per la propria strada e non sa più nulla degli altri.

Ma una promessa è una promessa; e una promessa fatta a vent’anni ha la solennità dell’enfasi con cui si affronta tutto (o quasi) a quell’età.
Così, all’approssimarsi dell’estate 2018, Dario decide di ritrovare i due compagni di ventura per ripetere la vacanza memorabile. Si scrivono, organizzano e si ritrovano.

Dopo pochi minuti di imbarazzo, tutto sembra tornare all’estate di vent’anni prima: è tutto un susseguirsi di ricordi, episodi rivissuti e dejà vu.
Ma è un tempo diverso, così come diverse sono diventate le responsabilità.

Una telefonata dall’ufficio a Dario è la scusa per tornare all’attualità e raccontarsi la loro vita di oggi.

Bob si è laureato, ha conseguito un master ed è entrato nell’azienda di famiglia. A trentacinque anni è diventato amministratore della società.  Suo padre trascorre il tempo tra golf e viaggi.
Bob lo tiene informato e ogni tanto gli chiede consigli, ma è più un modo per restare in contatto che un’esigenza reale. Bob ha fatto una lunga gavetta in azienda e ha imparato molto durante la gestione del padre, da lui e dai senior che erano in staff. Quindi, ora si sente tranquillo di fare da solo.  Il padre è contento perché l’azienda procede bene e lui può godersi il tempo libero in tranquillità.

Dario si è laureato ed è entrato nell’azienda di famiglia.
Dopo un po’, lui e il padre hanno convenuto che non avrebbe potuto sostituirlo: quell’attività non è proprio nelle sue corde e il padre ci tiene troppo per rischiare di vederla fallire a causa di una cattiva gestione. Così, quando tre anni fa il padre ha deciso di aver lavorato abbastanza, la gestione è passata nelle mani di un esperto, uno che ha studiato per amministrare le aziende.
Lavorava già da qualche anno in azienda, ha fatto carriera velocemente ma correttamente; conosce praticamente tutti i dipendenti e ha portato un paio di idee interessanti che hanno aiutato la società nei momenti di difficoltà. È caro, ma è bravo e con lui l’azienda prospera.

Dario, nel frattempo, ha usato i soldi degli utili dell’azienda familiare per avviare una sua attività.
Così, adesso fa l’imprenditore, proprio come suo padre, ma in un altro settore, che lo soddisfa di più. Suo padre è contento e Dario anche.
L’azienda di famiglia va bene e continua a produrre utili. Anche l’attività di Dario va bene: è ancora piccolina, ma con buone prospettive di crescita.
Ogni tanto chiede consigli a suo padre su come accelerare questa crescita; lui si schermisce: “Non so che dirti: non è il mio settore, e poi l’azienda è tua”, ma in fondo gli fa piacere sentirsi ancora utile.

A Luca mancavano due esami per laurearsi, ma si era stancato e non li ha fatti.
Suo padre è stato contento: così poteva dare una mano in azienda. Lì Luca fa un po’ di tutto e un po’ di niente.
I dipendenti lo chiamano “FiglioDelPrincipale”. A settant’anni, il padre continua a gestire l’attività e non accenna a voler mollare.
“Io ci morirò qua dentro” ripete spesso.
Luca non ha ruolo, non ha responsabilità: è solo il FiglioDelPrincipale, e lo sarà finché il padre non sarà costretto a ritirarsi.
Non sa se sarà capace di gestire l’azienda come lui; non ha mai provato.
Lo scoprirà quando arriverà il momento e… speriamo bene.

“Beato te” commentano Bob e Dario “che vivi ancora come vent’anni fa: senza responsabilità, senza obblighi…”
Luca sorride amaro e abbassa lo sguardo “Già, come vent’anni fa” pensa tra sé “Ma con vent’anni di più e un futuro più breve e più incerto”

Tre personaggi (quasi) inventati

I tre amici sono personaggi di fantasia, ma ispirati a persone ed eventi reali. Perché in Italia, per ogni Bob o Dario ci sono due Luca e la sua amarezza, e la nostra, nasce dalla consapevolezza che non è pronto a proseguire il lavoro di suo padre e non ha più tempo ed energie per prepararsi, né per prepararsi ad altro.

In Italia il 93% delle aziende sono familiari. Di queste, il 43% ha un amministratore over 60. Ogni anno, il 10% dei fallimenti avviene in fase di passaggio generazionale.
Circa il 70% delle aziende chiude entro cinque anni dal passaggio generazionale.

Così scriveva Gabriele Petrucciani sul Sole 24 ore: “In Italia, circa il 70% delle imprese con un fatturato compreso tra 20 e 50 milioni di euro è a matrice familiare (59% le aziende con fatturato oltre i 50 milioni). Di queste il 25% è guidato da un leader di età superiore ai 70 anni e il 18%, quindi quasi una su cinque, sarà costretta ad affrontare il ricambio generazionale nei prossimi 5 anni. Queste le principali evidenze emerse dall’ultimo Osservatorio Aub promosso da Aidaf (Associazione italiana delle aziende familiari), Unicredit e Bocconi. E non è detto che tutte riusciranno a sopravvivere, come evidenzia uno studio del Centro di Ricerca sulle Imprese di Famiglia (Cerif) condotto su un campione di Pmi con fatturato compreso tra 15 e 150 milioni che hanno affrontato il passaggio generazionale. In particolare, su 34 passaggi generazionali analizzati da Cerif, il 71% sono stati completati con successo, il 12% ha avuto esito negativo e il 17% circa è ancora in atto. Nei casi in cui il passaggio è avvenuto in modo ottimale, ci si è trovati di fronte a un passaggio generazionale di tipo dinamico o tipo tira e molla. «Il primo è stimolato da elementi di discontinuità interni ed esterni messi in atto dal potenziale erede – si legge nello studio – nel secondo, invece, i tempi di svolgimento del processo successorio sono molto estesi, con un continuo lascia e riprendi tra il leader e il potenziale erede».

Numeri significativi e alcuni tratti comuni che li rendono prevedibili:

Assenza di meritocrazia familiare: non è mai previsto che i figli non lavorino in azienda, nemmeno se dimostrano scarsa competenza o attitudine imprenditoriale.
Siccome il fondatore tiene ben saldo il ruolo di amministratore, i figli sono generalmente relegati all’area commerciale (maschi) o contabilità (femmine).
Praticamente lavorano e sono trattati come dipendenti ma con diversi privilegi in più.

Assenza di meritocrazia aziendale: poiché i ruoli sono già attribuiti, c’è scarsa motivazione a mettersi in luce da parte dello staff che – anche per evitare conflitti con i membri della famiglia – tende ad allinearsi supinamente alle scelte della proprietà, senza avanzare proposte innovative.
Chi è veramente bravo, capendo di non avere possibilità di crescita, li lascia per realtà differenti e che offrano maggiori opportunità di carriera; con il risultato di abbassare ulteriormente il livello qualitativo dell’organizzazione.

Assenza di delega: l’imprenditore non procede ad un progressivo passaggio di consegne al figlio che dovrà succedergli, ma tiene ben saldo lo scettro del comando fino alla fine.
Non accetta consigli, è convinto che, se finora le cose sono andate abbastanza bene, basti continuare a fare come si è sempre fatto.
La tradizione, nella sua visione, paga.

E la percezione deriva anche da una pericolosa commistione tra patrimonio familiare e patrimonio aziendale presente nelle piccole aziende (piccole in termini di dipendenti ma spesso non di fatturato).

Assenza di comunicazione interna: l’imprenditore non trasferisce il know how né le relazioni. In un’ottica di riservatezza atta a tutelare l’azienda, lo staff – e spesso anche i familiari – sono all’oscuro di gran parte delle informazioni strategiche e quindi nell’impossibilità di far fronte ad eventuali difficoltà finché non si presentino.

Mancanza di liquidità da destinare ad investimenti o per gestire crisi: se da un lato le aziende sono sovraesposte con le banche, perché l’intero plafond di credito è sempre interamente utilizzato, dall’altro risultano mediamente sotto-capitalizzate a causa di errori di stima del bisogno finanziario in fase di negoziazione delle aperture di credito.
Ciò a causa di scarse competenze tecniche dell’imprenditore che però non trasferisce ad altri il compito di gestire questi aspetti delicati e strategici della gestione d’impresa.
Ciò molto spesso genera storture che giustificano il successivo fallimento:

Scarsa preparazione imprenditoriale delle nuove generazioni.
Aziende nate e cresciute in periodi prosperi, per sopravvivere, hanno bisogno di competenze e abilità nuove.
Non basta essere cresciuti (fisicamente) in azienda per conoscerla e saperla gestire.

Resistenza al cambiamento
I mercati evolvono e le aziende devono (dovrebbero) allinearsi portando innovazione, sperimentando nuovi modelli produttivi e organizzativi.
Ma la mancanza di sinergia tra vecchia e nuova generazione impedisce questa evoluzione.
In un mercato globale e super competitivo l’esperienza vale la metà del coraggio; e il coraggio è dei giovani, così come l’innovazione e la flessibilità.
Dovranno capirlo presto le nostre PMI, o faranno la fine dei dinosauri.

E questa è la storia

Qui finisce la storia di Bob, Dario e Luca. E anche quella che mi andava di raccontare. Una storia che temo non dica molto di nuovo e che non sappiamo… perché questa è la storia. Speriamo solo riusciremo a scrivere un diverso finale.

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