All’età di tre anni ho deciso di diventare vegetariano; in…
Ho scritto un post su LinkedIn in cui riflettevo sull’apertura di Starbucks a Milano: in 4 giorni ho totalizzato più di 50’000 visualizzazioni, oltre 300 “mi piace”, un aumento dell’8% di richieste di contatto, un vertiginoso +574% di visite al mio profilo, un invito a parlarne ancora su una rivista di business. Lasciatemi dire che questa è una storia divertente.
La prima cosa divertente di questa storia è che mi impegno da mesi a produrre contenuti di qualità e aumentare la mia autorevolezza sulla piattaforma ma è con una riflessione banale scritta in 30 secondi che sembro avere ottenuto i maggiori risultati.
La seconda cosa buffa è che nell’era in cui si invita a parlare di ciò in cui si è esperti… beh ho vinto parlando di caffè e io il caffè non lo bevo nemmeno.
Il terzo aspetto è che sono ancora indeciso su questa storia: non riesco a capire se la fortuna di questo post mi renda felice oppure no…
Ricevo attenzione, quindi sono
Non dico niente di nuovo: siamo ossessionati dall’attenzione che riceviamo e l’attenzione che riceviamo sembra essere l’unico obiettivo nel nuovo gioco dei social. Gli esperti ne parlano in termini di vanity metrics, dati che soddisfano più l’ego che il portafogli; quasi tutti ne siamo al corrente ma allo stesso tempo quasi nessuno riesce a starne al riparo.
Come posso aumentare il coinvolgimento? Come dovrei scrivere per ottenere più like? Come faccio ad aumentare i follower?
Sono domande che i clienti, che seguiamo nel loro processo di posizionamento personale, ci pongono ogni giorno. Anche più volte al giorno!
E quasi ogni giorno, con il nostro team, distribuiamo consigli e buon senso: concentrati su ciò che è davvero in linea con la tua persona, offri vero valore, lascia perdere gli applausi e insegui qualcosa di più grande (ad esempio i risultati!).
Detto questo anche noi non possiamo fare a meno di confrontarci quotidianamente su quanto bene o male stiamo facendo… naturalmente monitorando e confrontando i dati sociali. Siamo insomma in una particolare situazione di predico bene / razzolo male, una linea sottile nella quale non si comprende più cosa faccia parte del business (monitorare i dati e l’engagement ha senso) e cosa non c’entri nulla con questa storia. Perché?
La Rivoluzione del Like
Fra 400 anni, quando si parlerà dell’epoca in cui viviamo oggi, l’evento più significativo, a mio avviso, non sarà la creazione di internet, o il primo iPhone, o la neutralità della rete: sarà il 2009, l’anno in cui Facebook inventò il pollice del “Mi piace”.
Il primo sintomo dell’importanza di questa funzione è che non ci possiamo credere: c’è da solo un decennio? E come faceva la gente, prima? Cioè, come esprimeva il proprio interesse, la propria approvazione? Cosa si usava prima del “like”? Non è possibile che sia stato inventato solo nel 2009!
Eppure è così. Amazon ha reso comune il commento ai commenti grazie al “Ti è stato utile / Non ti è stato utile”, che però esprimeva un concetto più pratico e non particolarmente gratificamente.
Instagram, invece, è già nato nello stesso 2009 con una funzione analoga (il cuoricino), mentre Twitter l’ha implementata solo nel 2015. YouTube, dal canto suo, aveva introdotto il “Mi piace / Non mi piace” nel 2010.
Una bomba a neuroni
Il bottone del “Mi piace” attiva nel nostro organismo le funzioni legate al fenomeno della ricompensa, in maniera molto simile a quanto fanno l’amore, il cibo e la droga. La stessa area del cervello che viene sollecitata è responsabile di quella che possiamo definire una comparazione sociale: ci interessiamo cioè a confrontare il nostro livello di ricompensa con quello degli altri, e non in maniera necessariamente assoluta.
Ricevere un “like” è quindi un’azione che da una parte ci fa piacere e dall’altra ci rende attenti al nostro posizionamento nella rete sociale in cui interagiamo: se la mia nuova foto di profilo ha ricevuto 101 mi piace, mentre il mio collega ne ha solo 31, sarò comunque frustrato nel realizzare che Paolina della contabilità ha messo il “like” alla sua foto e non alla mia.
Potrebbe sembrare un gioco di parole, ma la componente sociale è fondamentale per capire i processi cognitivi che ci sono dietro ai social media.
Il livello di intimità che esponiamo online è considerevole: parliamo di noi, di ciò che facciamo, delle nostre esperienze. Nel 1980, la cena rimaneva informazione privata e poco degna di nota. Oggi è tra i più importanti motivi di discussione e condivisione…

L’abitudine di spogliarsi e di osservare gli altri fare altrettanto
Più ci facciamo vedere, più ci vediamo. Più ci vediamo, più ci interroghiamo. Una continua riflessione, dubbiosa, su noi stessi.
Sto bene in questa foto? Non sembra che ho il naso troppo grosso? Ma da quando ho i capelli grigi? Cosa penseranno i miei colleghi se mi faccio un altro selfie? I mobili che si vedono dietro di me piaceranno a Paolina della contabilità o penserà che sono un vecchio spiantato?
Riflessioni che secondo uno schema ben preciso (circolo vizioso o virtuoso?) alimentano nuove discussioni. Più parlo di me, più mi abituo a riflettere sulla mia persona e più avrò argomenti che mi riguardano da discutere con gli altri (tra l’altro questo fenomeno ha anche un nome, per lo meno in inglese: Self-Referential Cognition Network).
Sto bene in questa foto?
Me lo domando e quindi… lo chiedo agli altri.
Altro che originalità!
Per quanto possa sembrare paradossale, il fatto di mettere così tanto il focus su se stessi è una forma di “conformizzazione”.
Vi siete ritrovati a una festa un po’ esclusiva in cui non conoscete nessuno? La prima cosa che fate?
- Comparare l’abbigliamento: sono troppo elegante o non lo sono abbastanza?
- Verificare il comportamento: chi e come usufruisce del buffet, chi fuma, chi balla, chi sembra perfettamente inserito nella serata e cosa sta facendo per esserlo…

Meno si conoscono le regole, più si ha tendenza a credere che le persone intorno a noi in quel momento ne sappiano di più, e quindi cerchiamo di imitarle, nel tentativo di comportarci come dovremmo.
Sui social media, gioco relativamente nuovo, il numero di follower, le visualizzazioni, i “mi piace”, i commenti che gli altri ricevono diventano il nostro benchmark. Ci osserviamo, osserviamo. Ci spogliamo, guardiamo chi si spoglia meglio, lo imitiamo.
Datemi una dose di “Mipiaceina”
Lo psicologo Nir Eyal, autore di Hooked: How to Build Habit-Forming Products, spiega bene il fenomeno che porta le persone a essere dipendenti dai social media: si incomincia con un’azione che provoca una ricompensa (pubblichiamo un post e riceviamo molti “like”, come il mio Starbucks).
Questo porta a un investimento di un qualche tipo, ad esempio di tempo, o di soldi, o di altre risorse, mobilizzate con l’idea di ripetere quel meccanismo di piacere/ricompensa che tanto abbiamo apprezzato. E il ciclo riparte da qui. Le abitudini si formano in questo modo, e vengono attivate da un elemento esterno, come potrebbe essere una notifica che spunta sul nostro cellulare: Paolina della contabilità ha commentato il tuo post.
Quando queste abitudini si sono consolidate, non è più necessario che qualcosa le scateni: ormai abbiamo creato un collegamento interno, una forma di associazione mentale, tra la verifica delle notifiche e la ricerca della ricompensa. Ci verrà normale farlo automaticamente.
È questo che porta il millennial medio a verificare Facebook 157 volte al giorno (dato reale).
Giocatori d’azzardo
Gli aspetti sin qui discussi trovano grande corrispondenza nel gioco d’azzardo, tanto sono i simili i meccanismi con giochi come la slot machine.
Tristan Harris, ex collaboratore di Google ed esperto di come la Silicon Valley sfrutti le vulnerabilità psicologiche delle persone, spiega ad esempio che il tempo di caricamento delle app, genere Facebook o Instagram, è uno dei fattori cruciali.
Quei due o tre secondi prima che la grafica si sistemi sui nostri monitor o smartphone, quei due o tre secondi in cui insomma vediamo uno sfondo confuso e ancora non appaiono i testi, pesa quanto il tempo in cui la slot ci fornisce il risultato, decretando se abbiamo vinto o perso.
Ci saranno notifiche nuove? Qualcuno si è interessato a me? Chi ha detto cosa?
Tristan sostiene che il ritardo nella visualizzazione sia una scelta strategica e deliberata, un effetto slot al quale veniamo sottoposti continuamente.
Ossessione reciproca
Attesa, piacere e dipendenza.
Natasha Dow Schüll, autrice di Addiction by Design, ha spiegato bene come, per i social media, i profitti siano strettamente legati alla continua attenzione che il consumatore dedica loro; e come si misura questa attenzione? In click e in tempo passato sulla pagina, naturalmente.
Ogni fornitore di servizi web, di social o di blog fornisce in maniera accurata e approfondita questi indicatori, con tanto di notifiche per avvisarci, per tenerci informati e/o ossessionati.
Ad esempio, grazie alla statistiche so che, in media, chi visita i miei articoli rimane oltre 4 minuti sulla pagina.
Visto che non pubblico contenuti porno, posso ragionevolmente dedurre che le persone abbiano impiegato quel tempo per leggere l’articolo (o forse andare direttamente alla fine di esso, dove c’è la conclusione… ah no, di nuovo: sito diverso). Ed evitare la diminuzione del tempo di permanenza diventa una preoccupazione, perché porta all’equazione meno tempo = meno interesse.
Per onestà c’è da dire che potrebbe anche essere un fattore incidentale e non una scelta così calcolata. Adam Alter, autore di “Irresistibile. Come dire no alla schiavitù della tecnologia”, spezza ad esempio una lancia nei confronti dei social media, ritenendo che l’effetto di dipendenza che si sviluppa nei loro utilizzatori non sia propriamente voluto. Il loro obiettivo sarebbe solo quello di creare esperienze sempre più coinvolgenti per accaparrarsi il nostro (poco) tempo e la nostra (ancora più rara) attenzione.
Sostegno reciproco
In uno studio del 1971, Dennis Regan chiedeva a un campione di persone valutare alcuni quadri. Un complice si assentava dalla sala e poi rientrava dopo alcuni minuti, in un caso tornando con un lattina di Coca-Cola in omaggio. Al termine dello stesso esperimento, lo stesso complice chiedeva di comprare dei biglietti di una lotteria.
L’esperimento dimostrò che il gruppo di persone che aveva ricevuto la bibita gratuita, non solo comprava più biglietti, ma soprattutto era disposto a spendere una somma di denaro notevolmente superiore della Coca-Cola ricevuta.
Come già detto non c’è molto di nuovo in questa storia…
Quando qualcuno ti segue o ti commenta, ti senti in dovere di fare altrettanto con lei o con lui. Quando ti mette un “like”, sarai più propenso a metterne uno anche a un suo contenuto – anche se è la foto di un gattino con una citazione di Osho. E addirittura più “like” ricevuti da una persona potrebbero farti sentire in dovere di fare qualcosa di più, o concreto, se solo ti venisse chiesto.
Mai sentito un forte senso di disappunto di fronte al post di “un amico” (leggi: persona che ti ha più volte apprezzato sui social) e ciò nonostante evitato di commentare a vostra volta, scardinando un così stupido pensiero?
I social media, con buona pace di quel che diceva poco fa Adam Alter, sfruttano questa nostra inclinazione naturale, mandando raffiche di notifiche. Ci allertano che qualcuno ha interagito con (noi) il nostro post e questo ci sollecita una reazione. E anche i nostri contatti sanno che abbiamo ricevuto quella informazione, e si aspettano a loro volta un riscontro.
Ecco: queste sono alcune delle ragioni per cui siamo così sensibili ai social, alle notifiche, al feedback degli altri. Ecco perché ci lasciamo condizionare anche quando cerchiamo di non farci condizionare.
E a questo punto ti trovi di fronte a una scelta difficile: o metti un “like” a questo articolo, rinforzando la nostra co-dipendenza reciproca ma rendendomi felice, oppure non lo metti e mi aiuti a disintossicarmi dal bisogno di piacere. Voilà, les jeux sont faits!
Nota:
Per una questione di leggibilità, ho sfrondato molti degli aspetti che avevo originariamente trattato per quanto riguarda la cosiddetta “Machine-Mediated Communication”. Per chi fosse interessato e mastichi l’inglese, consiglio la lettura di questo articolo, che dà una buona infarinatura sull’argomento: The Emerging Neuroscience of Social Media.
Cosa ne pensi?
All’età di tre anni ho deciso di diventare vegetariano; in seconda elementare, la maestra ha convocato i miei genitori perché “non era normale” che un bambino conoscesse tutti i nomi dei funghi in latino; a 13 anni ho amato per la prima volta senza sapere che non era amore; a 15 ho smesso di fare decathlon perché odiavo la competizione; ancora minorenne, sono stato processato da una corte marziale. A 20 anni mi sono sposato e a 23 ho divorziato; a 25 anni dirigevo una start-up che ho fatto fallire; a 29 ho avuto la meningite, sono morto ma non ho saputo restarlo. A 35 anni ho vissuto una relazione poliamorista e sono diventato padre di figli di altri. A 42 mi sono licenziato da un posto fisso, statale e ben pagato per fondare l’Agenzia per il Cambiamento Purple&People e la sua rivista Purpletude. A parte questo, ho 20 anni di esperienza nelle risorse umane, ho studiato a Ginevra, Singapore e Los Angeles, ho un master in comunicazione e uno in digital transformation e ho tenuto ruoli manageriali in varie aziende e in quattro lingue diverse: l’ONG svizzera, la multinazionale francese, le società americane quotate in borsa, la non-profit parastatale. Mi occupo soprattutto di comunicazione del cambiamento, di organizzazioni aziendali alternative e di gestione della diversità – e scrivo solo di cose che conosco, che ho implementato o che ho vissuto.