All’età di tre anni ho deciso di diventare vegetariano; in…
Noi essere umani abbiamo tendenza ad organizzarci in gruppi e a influenzarci a vicenda. È nella nostra natura: far parte di una tribù è da sempre sinonimo di sopravvivenza, e non c’è niente di più forte che l’istinto di conservazione.
Lo facciamo con gli amici, che spesso chiamiamo la nostra “cerchia” di amici.
Ma lo facciamo anche al lavoro, dove sviluppiamo persino un sotto-linguaggio comune (solitamente specialistico, come sigle e riferimenti interni, non comprensibili a chi non fa parte della tribù).
Le tribù del web
E lo facciamo anche sui social.
Quando pubblico un post, ci sono delle persone che gravitano attorno e che interagiscono regolarmente con quanto scrivo. Loro leggono me, io leggo loro. Non ci siamo cercati, spesso non ci conosciamo, ma sembra che ci siamo trovati.
Cosa ci accomuna? Solitamente un modo di vedere la vita. O alcune esperienze simili. O il piacere di trovare spunti stimolanti nell’altro. Perché, in fondo, alla sopravvivenza si sono sostituite le opportunità: frequentare queste persone ci dà l’impressione di poter lavorare meglio, di poter stare meglio, o forse soltanto di sentirci meno soli.
“Voglio riposare insieme ai miei compaesani. Se non altro loro e io veniamo dallo stesso posto. Forse, tutto considerato, è questo che importa. La tribù. Si vuole far parte della tribù. Consapevoli o no, è questo che si vuole.” (Jo Nesbø)
Sono cosciente che discorsi di questo tipo possono far storcere il naso a qualcuno, perché sembrano affondare le radici in una parte dell’uomo che abbiamo dimenticato: quella naturale, ancestrale, un po’ animale (e a questo proposito consiglio la lettura dell’ottimo articolo di Gabriele Bovina “Go Wild: il futuro è da selvaggi”).
Invece è proprio tutto l’opposto: questi fenomeni, che ci sembrano tanto lontani, sono le pietre angolari della nostra società. Abbiamo costruito la nostra civiltà su meccaniche di questo tipo ed esse permangono sotto forme diverse ma riconoscibili.
Parla, e ti dirò chi sei
Non è un caso che molti studiosi si siano dedicati al fenomeno del tribalismo. Dave Logan e Halee Fischer-Wright, in particolare, hanno dato una lettura affascinante del fenomeno, studiando la tipologia di linguaggio delle varie tribù organizzative a stadi differenti del loro sviluppo (per approfondire vale la pensa leggere Tribal Leadership, disponibile anche in italiano).
Per chiarezza, quando parliamo di tribù non si fa riferimento a quelle amerindiane o ai bantu del Burundi: sono i gruppi che troviamo all’interno delle aziende o in altri contesti della nostra società. Immaginiamoci che il trampolino di lancio sia l’approccio antropologico, mentre l’atterraggio è in pieno territorio della psicologia delle organizzazioni.
L’analisi linguistica portata avanti da Fischer-Wright, tipicamente, non è legata al fenomeno dei sotto-linguaggi tecnici, che citavo poco fa, bensì a tutta una serie di indicatori che permettono di riconoscere a che stadio di sviluppo si trova la tribù.
Ad esempio, i gruppi in cui è più comune sentire frasi del genere “Non ci ascoltano”, “Non ci prendono sul serio”, “Il mio datore di lavoro fa schifo”, “Non si possono cambiare le cose” sono al secondo stadio di sviluppo.
Se mi concedete una mezza battuta, la tribù dei sindacalisti ha tendenza a ritrovarsi in questa fase, ma anche i funzionari statali.
Invece, il terzo stadio gira tutto intorno a me e a me stesso. La parola più comune è “io”: “Non lo so”, “(io) ho un’idea”, “(io) sono sicuro che sarai d’accordo con ME che è necessario cambiare, e (io) penso di sapere come fare. Sei con ME?”.
C’è molta competizione, anche interna al gruppo. Secondo la mia esperienza, la maggior parte delle aziende dei servizi è a questo stadio.
Gli stadi di sviluppo delle organizzazioni tribali
A questo punto, penso che valga la pena dare una lettura veloce ai 5 stadi identificati da Logan & Fischer-Wright (la traduzione è mia, così come la sintesi):
Primo Stadio
La tribù è generalmente ostile, nei confronti di tutto e di tutti.
Il loro credo è “La vita fa schifo”.
Secondo Stadio
La tribù ha perso lo slancio di ostilità, si è calmata, ma un po’ troppo: è caratterizzata dall’apatia e dal senso di futilità. I propri membri hanno tendenza a non riconoscere le responsabilità e sono pronti a disgregarsi.
Il loro credo è “La mia vita fa schifo”.
Terzo Stadio
La tribù è composta da membri con interessi personali. Fanno parte del gruppo solo per soddisfare le proprie necessità e non collaborano volentieri con gli altri.
Il loro credo è “Io sono bravo, tu invece non lo sei”.
Quarto Stadio
I membri della tribù hanno sviluppato dei valori condivisi, sono disponibili a collaborare e a condividere la conoscenza. Sono estremamente competitivi, ma la loro energia è diretta contro persone esterne o contro altre tribù.
Il loro credo è “Noi siamo bravi, voi invece no”.
Quinto Stadio
Sono rarissime le tribù che arrivano a questo stadio, caratterizzato da un senso di beatitudine. I membri della tribù sono impegnati nella creazione e nell’innovazione, ottenendo grandi successi.
Il loro credo è “La vita è magnifica”.
A ogni scalino, da uno stadio a quello superiore, assistiamo a un drammatico miglioramento della produttività.
Questo è solo uno dei tanti motivi per cui è importante prendere coscienza di fenomeni di questo tipo: influenzano in modo determinante la capacità di un’azienda di essere all’altezza della propria missione.
Quando la tribù è viola
Facevo l’esempio poc’anzi di come mi sia accorto di far parte di una tribù anch’io, soprattutto su LinkedIn. Una purplebù, la chiamerei. E in modo simile, ci sono altre tribù che si sono create, intorno a progetti, o aziende, o località.
E ogni tanto ci sono scintille. Partono frecciatine contro la tribù accanto – o peggio – e ci si affronta a parole, nella più tipica tendenza della nostra era, dove le spade sono state sostituite dalle tastiere.
È normale che succeda.
Tuttavia c’è un aspetto che andrebbe approfondito, in queste dinamiche. Ed è legato alle modalità stesse di formazione di una tribù.
Come nasce una tribù?
Storicamente, gli esseri umani si federavano in gruppi che erano essenzialmente familiari, e non soltanto nel paleolitico: basti pensare ai clan scozzesi.
Ma quando i legami non sono familiari?
Quando la tribù non ha una storia comune e non può vantare degli anziani a cui fare capo, chi la dirige?
Sempre ammesso che sia necessario avere un leader, ma dal punto di vista antropologico questa sembra la tendenza. Insomma: Chi dobbiamo seguire?
L’impressione che ho, su base squisitamente empirica, è che la tribù tenda ad associarsi intorno alla persona che è maggiormente visibile. Quella che ci mette la faccia. I membri della comunità di interessi riconoscono a questa persona l’autorità e la ricompensano a suon di like e di condivisioni.
Non sono sicuro, però, che la tribù riconosca in modo equivalente l’autorevolezza del suo leader.
Per rimanere al comando, è soprattutto importante il modo in cui si dicono le cose, e la modalità vincente, specialmente sui social, sembra essere quella dell’aggressività.
La comunicazione violenta e la tribù-setta
Il leader esercita la propria influenza sui membri della tribù criticando gli altri, le persone che non fanno parte del suo clan.
È un lavoro da equilibrista, perché da una parte il suo atteggiamento rinforza il senso di appartenenza della tribù, cercando dei nemici esterni (tipico del quarto stadio di sviluppo), dall’altra agita lo spauracchio dell’esclusione di chi gli sta vicino (che è invece tipico del terzo stadio di sviluppo).
In pratica, il leader che si distingue per una comunicazione di tipo antagonistico, sempre orientata contro qualcosa o qualcuno, ricorda ai propri membri il privilegio di stare dalla sua parte: con me, o contro di me. Finché mi riconoscete, siete intoccabili; mi tradite, vi sommergerò con la sassaiola dell’ingiuria e con commenti al vetriolo.
Uno ci pensa due volte, prima di uscire dal cerchio tribale in cui si trova (anche perché il presupposto di questo tipo di associazione, ricordiamocelo, è l’interesse: stiamo in gruppo per una ragione di convenienza, speriamo di guadagnarci qualcosa, fosse anche solo un po’ di calore umano).
La dinamica è molto simile a quella di una setta: si tende ad isolarsi e a fare della tribù un luogo di interazione sociale quasi esclusivo. Si creano delle associazioni legate alla setta, si organizzano eventi autocelebrativi e si stampano magliette con slogan che sottolineano l’unicità dei membri della tribù, per suggerire di essere migliori degli altri.
Tutte cose che, onestamente, ho pensato di fare anch’io con la nostra Purplebù, prima di realizzare che è una strada pericolosa, se non addirittura un vicolo cieco, dove alla fine ci aspetta il baratro dell’autorefenzialità.
Un esempio dalla politica… ma non politico!
La cronaca di questi tempi, in Italia, ci offre un esempio privilegiato di questi fenomeni tribali, nella figura del vicepremier Luigi Di Maio, che tra Beppe Grillo e Alessandro Di Battista è sicuramente il personaggio meno carismatico del Movimento 5 Stelle.
E per carità, non sto facendo una valutazione di tipo politico: penso semplicemente alle modalità di comunicazione utilizzate dalla tribù M5S nel corso degli anni, dove ogni argomentazione era in opposizione a qualcosa o qualcuno. No Tav, No Cav., No Vax, No Inciucio.
Questa strategia comunicativa ha funzionato egregiamente e la tribù è cresciuta, fino al punto, però, che lo stadio di sviluppo successivo ha richiesto un nuovo set di competenze: la capacità di collaborare con gli altri, anche con gli avversari. E l’Inciucio è stato ribattezzato Contratto di governo.
Per par condicio, possiamo dare un’occhiata anche al campo del PD, campo peraltro ormai deserto: la caduta del capo-tribù carismatico ha aperto una voragine, un vuoto di potere che ha di fatto paralizzato tutto il partito.
La solitudine del capo-tribù
Se pensiamo alle realtà lavorative che conosciamo, o anche a certi nuclei familiari, o alle dinamiche che nascono sui social tra i nostri contatti, ognuno di noi può identificare queste tipologie di persone che si ritrovano al centro di una tribù ma che non sono dei veri leader.
Sono semplicemente persone che influenzano con la negatività, con l’arroganza, con i commenti cinici, ed esercitano potere, non influenza. Un potere che profuma di paura, ma non solo il timore che può incutere agli altri (la paura di essere esclusi, di essere criticati, di non ottenere più il sostegno degli altri membri della tribù-setta), bensì anche la paura che ha lui (o lei). La paura del capo-tribù.
Deve essere spaventoso, ritrovarsi in una posizione dove sei obbligato a usare la violenza verbale perché ti manca la capacità di ispirare.
Come co-fondatore di un’azienda, questa cosa mi interpella.
Mi domando quali siano le risorse e le forze da mettere in campo per arrivare al quinto stadio di sviluppo, quello che porta creatività, innovazione e, in fondo, felicità.
I 4 passi della tribù felice
Penso che il primo passo da fare sia rompere l’autoreferenzialità: interagire con le altre tribù, ascoltare le idee degli altri, soppesare le critiche e prenderle in considerazione. Non vuol dire essere sempre d’accordo, ma significa prima di tutto capirle.
L’ascolto che dedichiamo all’altro è sempre condizionato dal bisogno di rispondere. Non ascoltiamo veramente: ci prepariamo soltanto al contrattacco. Lo facciamo tutti, e troppo spesso.
Il secondo passo è restare concentrati sull’obiettivo, su quello che gli americani chiamano “purpose”, che è un obiettivo nobile, e che non sempre corrisponde alla mission e che non è esattamente la vision, per restare in ambito di terminologia anglosassone (con il rischio che si corre di questi tempi a citare lingue straniere in italiano…).
Ognuno deve trovare il proprio purpose. Per me è contribuire a costruire un mondo in cui le persone si sentano libere di essere se stesse.
Il terzo passo è esercitare una vera e genuina accoglienza degli altri, ma anche di se stessi: è difficile, ma è possibile imparare ad accettare che non sempre siamo in grado di essere all’altezza; e altre volte lo siamo, siamo veramente bravi e speciali, ma questo non ci mette al riparo dalle critiche.
Se il capo di un’altra tribù mi attacca, anche pubblicamente, ad esempio su un social, posso reagire oppure accogliere; io credo che faccia bene sia a me che a lui, se invece di lasciarmi ferire dalla parole, cerco di accogliere non soltanto il suo messaggio (in linea col primo passo), ma anche il suo dolore, la sua paura, e la sua unicità.
Il quarto passo è accettare che gli altri passi siano scritti da altre persone. In una tribù felice, ognuno si sente libero di esprimersi e di proporre le proprie soluzioni, senza paura di sentirsi biasimare.
Questo è il mio impegno nel quotidiano. Ci provo. Mi sforzo. Non sempre ci riesco.
E se tu che mi ha letto fin qui, accettando di fare delle curve un po’ azzardate con me, nei meandri di queste riflessioni, ora senti risuonare qualcosa in te…
…beh, allora fatti sentire, perché forse, anche se non lo sappiamo ancora, facciamo parte della stessa tribù. Una tribù felice, speriamo.
Cosa ne pensi?
All’età di tre anni ho deciso di diventare vegetariano; in seconda elementare, la maestra ha convocato i miei genitori perché “non era normale” che un bambino conoscesse tutti i nomi dei funghi in latino; a 13 anni ho amato per la prima volta senza sapere che non era amore; a 15 ho smesso di fare decathlon perché odiavo la competizione; ancora minorenne, sono stato processato da una corte marziale. A 20 anni mi sono sposato e a 23 ho divorziato; a 25 anni dirigevo una start-up che ho fatto fallire; a 29 ho avuto la meningite, sono morto ma non ho saputo restarlo. A 35 anni ho vissuto una relazione poliamorista e sono diventato padre di figli di altri. A 42 mi sono licenziato da un posto fisso, statale e ben pagato per fondare l’Agenzia per il Cambiamento Purple&People e la sua rivista Purpletude. A parte questo, ho 20 anni di esperienza nelle risorse umane, ho studiato a Ginevra, Singapore e Los Angeles, ho un master in comunicazione e uno in digital transformation e ho tenuto ruoli manageriali in varie aziende e in quattro lingue diverse: l’ONG svizzera, la multinazionale francese, le società americane quotate in borsa, la non-profit parastatale. Mi occupo soprattutto di comunicazione del cambiamento, di organizzazioni aziendali alternative e di gestione della diversità – e scrivo solo di cose che conosco, che ho implementato o che ho vissuto.