All’età di tre anni ho deciso di diventare vegetariano; in…
Domenica mattina, call di lavoro con un cliente. Sentivo le grida dei suoi bambini in sottofondo; mi sembrava di vedermeli davanti, che giocavano chiassosamente, con la mamma che cercava di tenerli buoni, mentre papà si nascondeva dietro il silenzio di una porta, per continuare a lavorare.
La digitalizzazione ha un impatto significativo non solo sulle modalità di lavoro, o sul dove lavoriamo, ma anche sul quando. Io per primo, che ho fatto la scelta di lasciare un lavoro d’ufficio con orari regolari, dovrei capire l’importanza del tempo libero da dedicare ai propri cari; e infatti mi sono sentito un po’ in colpa.
Ma solo un po’ e solo per qualche secondo.
Perché – confesso – io non credo nel Work-Life Balance, l’equilibrio tra vita privata e vita professionale.
Produttività e cartellini
In una logica dove gli orari 8-18 sono obsoleti, perché riteniamo maleducato chiamare qualcuno per lavoro dopo le 21? Oppure perché ci ostiniamo a considerare la domenica una roccaforte intoccabile?
La maggior parte delle aziende continua a funzionare sulla base di modelli di business che richiedono la presenza fisica dei collaboratori in un certo luogo, in un certo orario e per una certa durata.
In moltissimi uffici ancora si timbra, perché bisogna dimostrare di aver fatto le ore: 50,11 alla settimana ad Hong Kong (dati UBS) contro le 38,5 ore in Italia (dato Eurostat 2017, sul quale “pesa” il contratto di 36 ore della Pubblica Amministrazione).
E ho scritto “pesa” tra virgolette perché è così che i giornali commentano il dato. Come se lavorare meno ore fosse un trend negativo. Lavorare meno può essere negativo. Meno ore, non necessariamente.
Vecchie professioni in modo nuovo?
Alcune professioni sono legate a degli orari fissi, come ad esempio gli operai in fabbrica o i mestieri della sanità. È anche vero che spesso proprio queste figure lavorano a turni, e che quindi hanno un’organizzazione completamente differente della settimana. Per molti operai, la domenica è un giorno qualunque (con l’aggiunta della seria A!).
Intendiamoci: non sto portando avanti una crociata a favore del lavoro 24/7. Sto cercando di sottolineare una certa ipocrisia nel celebrare lo smartworking, il telelavoro, il part-time e gli orari flessibili, per poi cadere nella difesa degli orari di vita privata contro gli orari della vita professionale.
Non sono sicuro che questo distinguo sia ancora rilevante. Non lavoriamo più così. Non viviamo più così. Oggi troviamo fino a quattro generazioni diverse che lavorano nella stessa azienda, ognuna con le proprie abitudini e con le proprie aspettative su come il lavoro debba essere fatto e organizzato.
Com’è bello vendere Work-Life Balance
Ci sono centinaia di consulenti che hanno fatto del work-life balance il loro credo. Li ascolto parlare di perché dovremmo aspirare tutti a trovare un equilibrio tra la vita privata e la vita lavorativa e capisco che questa idea di equilibrio possa piacere.
Ha un qualcosa di ben distribuito, egalitario, giusto, buono, e nello stesso tempo sembra suggerire che è qualcosa che puoi ottenere, se ti impegni abbastanza. O se trovi l’azienda giusta.
Perché di rimando anche i datori di lavoro vengono sensibilizzati a questa idea dell’equilibrio e allora si inventano orari flessibili, vacanze a punti, telelavoro e qualche illuminato persino “la settimana lavorativa compressa”.
Nelle ultime settimane, ad esempio, il gestore di fondi fiduciari neozelandese Perpetual Guardian è saltato agli onori della cronaca perché dal 1 luglio 2018 ha implementato la settimana di 4 giorni, senza toccare il salario dei propri collaboratori, e questo a fronte di un periodo di prova di 6 settimane che aveva dato esiti positivi.
L’idea non è nuova. Ci aveva provato (indovinate un po’) Amazon nel 2016, diminuendo la settimana lavorativa a 30 ore, con una riduzione del salario ma senza ridurre i benefit legati al contratto a tempo pieno (vacanze, fondo pensione eccetera).
Ci hanno provato anche nella sanità, introducendo del modelli di turni di 6 ore, che in un esperimento svedese, aveva portato alla diminuzione dei giorni di malattia del personale.
Quindi?
Chi mi legge regolarmente, sa che io sono un fautore di una persona, una vita: non credo che ci siano dei limiti ben definiti tra ciò che siamo a casa e ciò che siamo al lavoro.
Al contrario, il concetto stesso di “equilibrio vita/lavoro” presuppone che ci sia una linea di differenziazione netta tra la nostra vita professionale e personale.
Per essere in equilibrio, la bilancia deve avere due piatti separati, in opposizione, e con pesi uguali.
Dobbiamo avere due vite. Ma è così? Non avete mai cercato un viaggio di vacanza dall’ufficio? Non vi è mai capitato di rispondere a un email mentre fate colazione, prima di uscire? O di essere all’estero o in un’altra città, o per piacere o per lavoro, e fare una video conferenza con qualcuno che stava dall’altra parte del globo?
Per questo non credo nel Work-Life Balance.
Penso che sia un goffo tentativo di spiegare con parole vecchie un bisogno nuovo, che è quello di distribuire le priorità nella propria vita (una vita, senza fare differenza tra vita professionale e vita familiare).
Delle priorità che hanno pesi diversi, che danno soddisfazioni diverse e che richiedono tempi e strumenti diversi.
Priorità e pragmatismo
La mia idea di priorità è piuttosto pragmatica: secondo il mio modo di ragionare, qualcosa di urgente e importante richiede tutta la mia attenzione e la mia energia. Poco importa quando e dove succede.
E questo non ha a che fare con quante ore passi a casa e quante al lavoro. È più una questione di quanta energia riesci a dedicare all’una o all’altra cosa.
Abbiamo visto che i legislatori stanno cercando di rispondere alle tensioni che sono nate rispetto agli orari di lavoro che si sono espansi troppo, e questo a causa del fatto che siamo tutti più facilmente reperibili.
La Francia, ad esempio, ha introdotto il principio del diritto al riposo dopo le sette di sera. Di fatto, è illegale per il datore di lavoro sollecitarti oltre l’ora prestabilita, così come dovrebbe prendere disposizioni disciplinari se si accorge che tu presti lavoro fuori dagli orari convenuti.
Capisco bene la tentazione di rispondere a qualcosa di complicato con delle norme complicate, ma diciamoci la verità: non si può trovare un modello che va bene per tutti. Una persona magari preferisce lavorare un po’ da casa alla sera, e andare al lavoro più tardi al mattino (io ero uno di questi, quando ero in azienda).
Superare l’equilibrio
Più che di equilibrio, mi piacerebbe parlare di armonia di energie. Lo so, sembra un po’ new age. Ma non trovo un’espressione migliore: l’armonia di energie è il tentativo di una persona di distribuire le proprie energie in base ai bisogni reali del momento, a prescindere dal luogo o dal tempo in cui si trova.
Infatti, sono convinto che la soluzione più funzionale sia quella di cercare di integrare i bisogni professionali con quelli privati, trovando delle soluzioni individuali che permettano alla persona di dare il meglio di sé in entrambi gli ambiti.
Anche perché le condizioni cambiano: un trasloco, o un bambino, o una malattia in famiglia, o un lutto, possono fortemente condizionare i nostri bisogni e le nostre disponibilità.
L’idea non è di creare regolamenti e eccezioni, ma di definire delle linee guida entro cui muoversi e adattarsi, affinché ognuno di noi trovi… l’equilibrio?
No, continuo a preferire “armonia”, mi sembra più corretto.
Cosa ne pensi?
All’età di tre anni ho deciso di diventare vegetariano; in seconda elementare, la maestra ha convocato i miei genitori perché “non era normale” che un bambino conoscesse tutti i nomi dei funghi in latino; a 13 anni ho amato per la prima volta senza sapere che non era amore; a 15 ho smesso di fare decathlon perché odiavo la competizione; ancora minorenne, sono stato processato da una corte marziale. A 20 anni mi sono sposato e a 23 ho divorziato; a 25 anni dirigevo una start-up che ho fatto fallire; a 29 ho avuto la meningite, sono morto ma non ho saputo restarlo. A 35 anni ho vissuto una relazione poliamorista e sono diventato padre di figli di altri. A 42 mi sono licenziato da un posto fisso, statale e ben pagato per fondare l’Agenzia per il Cambiamento Purple&People e la sua rivista Purpletude. A parte questo, ho 20 anni di esperienza nelle risorse umane, ho studiato a Ginevra, Singapore e Los Angeles, ho un master in comunicazione e uno in digital transformation e ho tenuto ruoli manageriali in varie aziende e in quattro lingue diverse: l’ONG svizzera, la multinazionale francese, le società americane quotate in borsa, la non-profit parastatale. Mi occupo soprattutto di comunicazione del cambiamento, di organizzazioni aziendali alternative e di gestione della diversità – e scrivo solo di cose che conosco, che ho implementato o che ho vissuto.