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La fabbrica dell’autenticità: apparire veri, ma non esserlo veramente

La fabbrica dell’autenticità: apparire veri, ma non esserlo veramente

Quando scriviamo il nostro curriculum, o quando completiamo il profilo su LinkedIn, stiamo costruendo la parte più importante del nostro personal brand, il nostro “marchio”.

Il marchio è ciò che dovrebbe distinguere un prodotto da altri prodotti simili, appartenenti alla concorrenza.
Non per niente la sua origine viene proprio dal marchiare a fuoco la pelle di un animale per attestarne la proprietà: questa è la mia mucca, identica alla tua mucca, ma diversa, in quanto brandizzata.

Un tempo si usava marchiare anche le persone: questo è un ladro, questa è un’adultera. La famosa lettera scarlatta di puritana memoria serviva a rivelare agli altri qualcosa di una persona che non fosse necessariamente visibile a occhio nudo.

In modo analogo, il nostro CV dovrebbe comunicare agli altri tutta una serie di informazioni che ci caratterizzano ma che non si vedono.

La tentazione del packaging

Se il personal branding è mostrare agli altri ciò che siamo per dare loro la possibilità di sceglierci in un mondo pieno di altre persone simili, cosa dobbiamo fare per uscire dal lotto?

Il marketing ha una risposta pronta e semplice a questa domanda: c’è bisogno di un bell’imballaggio.

Il packaging comunica ciò che il prodotto può fare e quale valore aggiunto può portare.
La maggior parte dei professionisti del settore si spingeranno fino a dire che l’imballaggio è importante almeno quanto il prodotto.

Nella stessa ottica, quando lavoriamo sul nostro personal brand abbiamo tendenza ad abbellire un po’ la forma e la sostanza.
Ci cascano tutti, persino i primi ministri (ricorderete la confusione sollevata dal curriculum di tutto rispetto ma non sempre preciso del premier Giuseppe Conte al momento della sua nomina).

La tendenza attuale del mercato, tuttavia, è alla semplificazione: tutto deve apparire più naturale, meno artificiale, di prossimità, bio e autentico. E anche l’industria del personal branding si adatta e propone quindi alle persone di essere se stesse (il peggior consiglio che si possa dare a taluni individui, detto fra noi).

Comparare mele e mele

L’intuizione dell’autenticità non è di per sé errata o fuorviante.
Anche nella nostra azienda, lo slogan che abbiamo scelto per questo genere di servizio è proprio “Diventa un brand te stesso”. Con la parola “brand” barrata ad indicare che bisogna andare oltre il marchio, percepito come artificiale, per riscoprire la propria vera natura.

Ma questo processo comporta qualche rischio.
Poco fa citavo l’etichetta del cibo “bio” che si presta bene al parallelismo: come distinguere una mela normale da una bio? Gli studi hanno dimostrano che non ci sono differenze di gusto percettibili.
Per questo motivo il legislatore ha previsto tutta una serie di regolamentazioni che permettono a un prodotto di fregiarsi del titolo “bio”. Ma tolta l’etichetta, una mela è una mela.

Per questo motivo c’è stato tutto un fiorire di stranezze tipiche del nostro sistema economico: nella filiera tradizionale delle mele, quelle ammaccate o fuori standard vengono scartate; nella filiera bio, quelle troppe perfette vengono scartate, a vantaggio di quelle dalla forma un po’ strana e che sembrano più autentiche.

Il focus, naturalmente, è tutto sul quel “sembrare” che è il vero nocciolo della questione (o il torsolo, in questo caso).

Bisogna essere honesti. O no?

Uno studio del 2012 della Society for Human Resource Management aveva messo in evidenza che il 78% dei curriculum poteva essere considerato ingannevole, con più della metà dei CV che contenevano informazioni palesemente false.

È un’idea abbastanza comune che i CV vadano presi con le pinze.
Tuttavia, quando mi confronto con i miei colleghi che si occupano soprattutto di recruitment, è evidente che questo aspetto è tutto sommato secondario.

Chi riceve tonnellate di candidature ogni giorno non ne verificherà i contenuti, per lo meno non nella prime fasi del processo di selezione: si fa fiducia all’onestà del candidato, ben sapendo che, prima o poi, tutti i nodi verranno al pettine.

Nonostante ciò, i guru di internet, quando parlano di autenticità, mettono l’accento soprattutto sulla veridicità delle informazioni.
A mio avviso questo è solo una piccola parte del concetto di essere autentici: in realtà si può fare della mistificazione anche con dati assolutamente veri e fattuali. E anzi, in questo caso l’imbroglio è persino più subdolo, perché difficile da scoprire.

La sofferenza è sempre dietro l’angolo

L’aspetto paradossale della maggior parte degli articoli presenti online che spiegano l’importanza di essere autentici è che si esauriscono tutti in una lista di cose da fare e cose da non fare (do’s & don’ts).

Il mio consiglio preferito è quello di scegliere un layout per il CV che non sia vecchio o troppo utilizzato. In pratica, per apparire autentico, devi essere trendy. Packaging, di nuovo.

Questa cosa la dice lunga sull’approccio che abbiamo. E non per colpa, ma proprio per abitudine.
Perché, onestamente, voler piacere è un sentimento molto umano e comprensibile, anche quando questo ha un prezzo. Lo dice pure la saggezza popolare: per apparire bisogna soffrire.

Ma dov’è la sofferenza in un profilo LinkedIn?
A mio avviso proprio in questa pretesa di apparire autentici, senza necessariamente esserlo.

La fabbrica dell’autenticità

Mi rendo conto che non tutti avvertono lo stridore di questa situazione così come ancora oggi pensano che mettere negli hobby il calcio, o la pallavolo o qualsiasi altro gioco di squadra sia positivo.

Detto per inciso, questa credenza è figlia di un altro periodo storico in cui il focus non era sull’autenticità ma sulla capacità di lavorare con altre persone e che ha coinciso con l’espandersi della moda degli open space.
Abbattere gli spazi di lavoro fisici, creando contatto tra le persone, richiedeva delle competenze sociali diverse. E quindi tutti i selezionatori si sono buttati alla ricerca di quei segni che potevano certificare la capacità di lavorare nello spazio fisico occupato da altri.

Questo è un esempio ulteriore di quanto sia permeabile il confine tra essere e apparire, tra fare e vendersi.
Ma è soprattutto un segno di un bisogno più profondo che è quello di allineare la propria visione di sé con la visione che gli altri hanno di noi.

Idealmente, ciò che siamo dovrebbe piacerci a sufficienza da prendere il rischio di mostrarlo agli altri.
Invece molti di noi fanno proprio il contrario: cominciano a far finta di essere ciò che gli altri si aspettano (o, ancora peggio, ciò che crediamo che gli altri si aspettino da noi).

Interiorizzando la maschera che portano, pensano di diventare più autentici. E sono disposti a pagare professionisti specializzati nel personal branding ma che, di fatto, faranno con loro quello che fanno i tanatoprattori: useranno la vernice da carrozziere per truccare i morti.

Viviamo di proiezioni

C’è qualcosa di fondamentalmente sbagliato nel pensare in modo strategico a come essere autentici.
O lo sei o non lo sei, non è che c’è un modo migliore o peggiore di essere ciò che sei veramente.

Il problema è che una persona veramente autentica non può piacere a tutti.
E questo non perché siamo tutte persone cattive che si nascondono dietro a maschere di bontà: semplicemente perché una persona autentica è coerente, e non modificherà le proprie idee solo per piacere agli altri.

La natura intrinsecamente imperfetta dell’essere autentici può essere controintuitiva nell’epoca dei filtri e del fotoritocco e delle gratificazioni istantanee dei like (che altro non sono se non delle imposizioni travestite da rinforzi positivi: questo mi piace = devi essere maggiormente così).

In modo automatico, ci compariamo agli altri e facciamo tutto noi: scegliamo il campione di riferimento, elaboriamo i criteri di comparazione, analizziamo il benchmark e formuliamo raccomandazioni. E cerchiamo di integrare queste informazioni nel nostro apparire autentici.

Non dobbiamo piacere a tutti

Non c’è nulla di meno reale – e pericoloso – che immaginare i bisogni degli altri. Bisogni del mercato inclusi.
Secondo la mia esperienza, l’autenticità sta invece nel fare chiarezza sui propri valori e di proporli nel proprio profilo, senza secondi fini.

Questo sono io e questo è ciò che voglio.

Ci saranno recruiter a cui non piaceremo. Aziende che penseranno che non siamo in linea con i loro, di valori. E questo sarebbe un problema? Vogliamo veramente andare a lavorare per qualcuno che ci apprezza per ciò che non siamo?

La chiave del benessere è allineare l’immagine che abbiamo di noi stessi con ciò che vedono gli altri di noi, e non viceversa. In modo che le persone – e le aziende – ci scelgano proprio per quello che siamo.

Insomma, se il problema è che una persona autentica non può piacere a tutti, la soluzione allora è capire che una persona veramente autentica non deve piacere a tutti.

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