All’età di tre anni ho deciso di diventare vegetariano; in…
Il concetto di “Intelligenza emotiva” è un po’ come la barba: dalla fine degli anni Novanta a oggi ha conosciuto un successo costante, anche tra chi, abituato a riflettere in modo binario, ci vedeva solo un ossimoro.
Di cosa stiamo parlando
Santa Wikipedia vi saprà fornire un riassunto esaustivo della definizione di Intelligenza Emotiva.
La definizione da bar (più comprensibile) è invece questa: una persona che ha una buona consapevolezza delle proprie emozioni (cosa mi fa arrabbiare, cosa mi imbarazza, cosa mi fa piacere, e perché), e che sa riconoscere questi stessi meccanismi negli altri, avrà tendenza a stabilire e intrattenere rapporti più funzionali.
Ora, non è detto che una persona con un’alta intelligenza emotiva sia anche estroversa e a suo agio in mezzo alla gente; tuttavia è probabile che capisca bene cosa sia appropriato e cosa no all’interno della propria cerchia sociale.
Alcuni studi hanno messo in evidenza un rapporto tra questa capacità “sociale”, chiamiamola così, e l’intelligenza tout-court. Direi che ci sta, a patto di non confondere intelligenza con erudizione: una persona che non ha studiato può essere molto intelligente e padroneggiare degli strumenti tipicamente associati all’intelligenza emotiva.
In altre parole: un avvocato super studiato può avere zero intelligenza emotiva, mentre una signora delle pulizie che non ha neanche il diploma di terza media può avere un alto quoziente di intelligenza emotiva.
Perché è importante
Nella maggior parte delle professioni, interagiamo con altri individui: capi, colleghi, clienti, fornitori, autorità, associazioni di categoria. L’intelligenza emotiva regola la nostra capacità di interfacciarci con queste persone in maniera appropriata. E quindi di avere migliori prestazioni.
L’appropriatezza, badate bene, non è universale e può variare fortemente da una cultura all’altra.
Ma visto che il comportamento ritenuto idoneo nei diversi contesti si modella proprio attraverso l’interazione con gli altri, anche il fatto di sapersi muovere con persone e registri diversi è sintomo di intelligenza emotiva.
Ma quindi, perché è importante?
È importante perché le conoscenze tecnico-professionali contano solo un 10-20% nel nostro lavoro. Tutto il resto, o una grossa fetta di esso, è legato a competenze personali (come mi conosco e mi gestisco) e sociali (come interagisco con gli altri).
Gli studi dimostrano che le persone particolarmente intelligenti emotivamente si adattano più facilmente a un nuovo ambiente di lavoro. Si sentono bene + fanno sentire bene i propri colleghi = migliore produttività.
Non stupisce quindi che i selezionatori tendano a preferire dei test per l’intelligenza emotiva, che sono anche meno imbarazzanti rispetto ai test del Q.I.
Infine c’è un altro aspetto: la capacità di fare network è molto legata alle competenze “socializzanti”. Si stima che quattro persone su cinque trovino lavoro grazie alla propria rete di contatti.
Se vi interessa un assaggino gratuito che vi possa dare un’indicazione sul vostro livello di intelligenza emotiva, potete provare questo test semplice (e un po’ semplicista): CLICCARE QUI.
Cosa ne pensi?
All’età di tre anni ho deciso di diventare vegetariano; in seconda elementare, la maestra ha convocato i miei genitori perché “non era normale” che un bambino conoscesse tutti i nomi dei funghi in latino; a 13 anni ho amato per la prima volta senza sapere che non era amore; a 15 ho smesso di fare decathlon perché odiavo la competizione; ancora minorenne, sono stato processato da una corte marziale. A 20 anni mi sono sposato e a 23 ho divorziato; a 25 anni dirigevo una start-up che ho fatto fallire; a 29 ho avuto la meningite, sono morto ma non ho saputo restarlo. A 35 anni ho vissuto una relazione poliamorista e sono diventato padre di figli di altri. A 42 mi sono licenziato da un posto fisso, statale e ben pagato per fondare l’Agenzia per il Cambiamento Purple&People e la sua rivista Purpletude. A parte questo, ho 20 anni di esperienza nelle risorse umane, ho studiato a Ginevra, Singapore e Los Angeles, ho un master in comunicazione e uno in digital transformation e ho tenuto ruoli manageriali in varie aziende e in quattro lingue diverse: l’ONG svizzera, la multinazionale francese, le società americane quotate in borsa, la non-profit parastatale. Mi occupo soprattutto di comunicazione del cambiamento, di organizzazioni aziendali alternative e di gestione della diversità – e scrivo solo di cose che conosco, che ho implementato o che ho vissuto.